tag:blogger.com,1999:blog-40419381560763619762024-03-29T04:29:43.343+01:00Cinema ConnectionIdeas and thoughts about films, but also links to open new horizons and new ways to think about cinema.Unknownnoreply@blogger.comBlogger12125tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-1785382629216823482012-04-01T21:31:00.010+02:002012-04-01T22:04:28.043+02:00TERRAFERMA E IL BLU PROFONDO<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlxPfcaWtdIgsHoIlpW2G3XNM49YJswnMrYrJhQI2HxojoYKWwLfRO9ThwaEk8ci2zKzrBKixJgYXlWHP2Zvona3ufbwiW8v9Jeen3KZ2CgpwQ61WYXE521tPK-TAMJN9xV_xx4k9d_XW8/s1600/566565-terraferma-emanuele-crialese.jpg"><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 182px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlxPfcaWtdIgsHoIlpW2G3XNM49YJswnMrYrJhQI2HxojoYKWwLfRO9ThwaEk8ci2zKzrBKixJgYXlWHP2Zvona3ufbwiW8v9Jeen3KZ2CgpwQ61WYXE521tPK-TAMJN9xV_xx4k9d_XW8/s320/566565-terraferma-emanuele-crialese.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5726522308096417122" /></a><p class="p1" style="text-align: justify; "><span>Ricorda una poesia di Giorgio Caproni il film <i style="font-weight: normal; "><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=201490">Terraferma</a></i> di <b>Emanuele Crialese</b>. Poesia visiva, dove ogni inquadratura è un dipinto dai tratti essenziali e genuini, come la terra che rappresenta. </span></p> <p class="p2" style="text-align: justify; font-weight: normal; font-style: normal; "><span style="font-size: 100%; ">Ogni personaggio è delicato stereotipo, così ben interpretato da far dimenticare di assistere alla visione di un film. </span><span style="font-size: 100%; ">In quest'isola siciliana, così piccola da non comparire nemmeno sull'atlante, tutto sembra immutato, tutto sembra più autentico. La vita è ciclica secondo le leggi del mare e dei viaggiatori (uno choc il passaggio all'estate con il tanto atteso arrivo dei traghetti colmi di turisti), e sembra non avere nulla a che fare con il mondo che noi tutti conosciamo. Ce ne accorgiamo vedendo accostati i giovani turisti al coetaneo Filippo, che desiste ai richiami di un mondo globalizzato e globalizzante, e sogna di vivere l'intera vita sull'isola continuando il lavoro dei padri. </span><span style="font-size: 100%; "> </span><span style="font-size: 100%; ">Giulietta (Donatella Finocchiaro) è una donna che incarna quella leggendaria bellezza siciliana, eternamente malinconica, nutrita da sacrifici e devozione; ma è anche una donna libera desiderosa di ribaltare il proprio destino: </span><span style="font-size: 100%; ">sogna di vivere a Trapani, di cambiare vita e trovare un nuovo compagno.</span></p><p class="p1" style="text-align: justify; font-style: normal; "><span><span style="font-size: 100%; ">Un mondo lontano anni luce dalla nostra caotica routine: lontano anche dalla disperazione dei migranti, giunti sull'isola tra paure e speranze. Gli isolani di <b>Crialese</b> sono traghettatori di due mondi. Sì, ne esistono due, ci dice il regista italo-americano. </span><span style="font-size: 100%; ">Siamo in una sorta di purgatorio nemmeno troppo figurato, che divide i</span><span style="font-size: 100%; ">l nord e il sud (del pianeta), la legge e l'istinto, la ragione e i sentimenti. La scelta morale è il fulcro, ma sapientemente celata dalla perpetua ricerca estetica e dalla sottile indagine psicologica, giocata nella dialettica degli opposti. </span></span></p> <p class="p2" style="text-align: justify; font-weight: normal; font-style: normal; "><span style="font-size: 100%; ">Dopo il precedente </span><i style="font-size: 100%; "><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=it&documentID=55067">Nuovomondo</a></i><span style="font-size: 100%; "> non si può che domandarsi se le similitudini siano cifre stilistiche o qualcosa di più: Sicilia, mare e oceani sconfinati, arrivi e partenze, disperazione, ricerca di un mondo migliore. A inizio novecento eravamo noi a fuggire nel Nuovo Mondo, Ellis Island era porto di anime, molto più di qualsiasi isola siciliana di oggi. Ieri eravamo noi, oggi loro. Il toccante incontro fra Giulietta e la donna clandestina, ricorda quello che troppo spesso dimentichiamo: potremmo essere noi. Chi accusa il film di avere romanzato un problema di un'attualità sconcertante eccede in cinismo. La morale è qualcosa di cui l'uomo si nutre dall'alba dei tempi, proprio perché nel caos degli eventi, e questo vale oggi più che mai, si ha bisogno di ritrovare i significati profondi e i valori universali. Se poi la si adorna di bagni di latte candido o di blu profondo, si compie fino in fondo la vera magia del cinema.</span></p> <p class="p2" style="text-align: justify; font-weight: normal; font-style: normal; "><span><br /></span></p> <p class="p2" style="text-align: justify; font-weight: normal; font-style: normal; "><span><br /></span></p> <p class="p2" style="text-align: justify; font-weight: normal; font-style: normal; "><span><br /></span></p> <p class="p2" style="font-family: Georgia, serif; text-align: justify; font-weight: normal; font-style: normal; "><br /></p>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com335tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-67567451645771652022012-03-14T11:51:00.005+01:002012-03-14T12:14:12.346+01:00ATTENBERG: IL FAVOLOSO MONDO DI MARINA<p class="p1" style="font-weight: normal; text-align: center; "><span><span><i>Dio è il Silenzio, Dio è l'Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini. </i></span><span>Sartre</span></span></p><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBgdFl9OqAPz9A_OGl-XxGq5U9FydD_nagIpo-Z4V8FhCy5wxupu2QqKSDLYTLMa0EM85Pgy48E8bInul3B5nxPqeLzJ0LPhfLd5DEi3L0LIm_uljVsELQj7SSZZhstsK-3xwv44LJ6ZUU/s1600/attenberg3.jpg" style="font-weight: normal; font-size: 100%; "><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 216px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgBgdFl9OqAPz9A_OGl-XxGq5U9FydD_nagIpo-Z4V8FhCy5wxupu2QqKSDLYTLMa0EM85Pgy48E8bInul3B5nxPqeLzJ0LPhfLd5DEi3L0LIm_uljVsELQj7SSZZhstsK-3xwv44LJ6ZUU/s320/attenberg3.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5719704295755408546" /></a><p class="p1" style="text-align: justify; font-size: 100%; "><span style="font-weight: normal; font-size: 100%; "><i><a href="http://cineuropa.org/ffocusarticle.aspx?lang=en&documentID=208671&treeID=2284">Attenberg</a></i> è una poesia visiva, il suo mondo ovattato parla di individualità inespresse, di visioni che lasciano segni indelebili e profondi, perché arrivano a noi per vie differenti dalle parole. La luce cupa e radente della fotografia di </span><span class="s1" style="font-size: 100%; "><b>Thimios Bakatakis</b>,</span><span style="font-weight: normal; font-size: 100%; "> ancor prima che le immagini, influenza la nostra percezione e la nostra emotività. </span><span style="font-size: 100%; ">Marina è una outsider, la sua vita è un perpetuo fuori sincrono. La realtà oggettiva la destabilizza, si interseca alla sua percezione del mondo, creando confusione. Lei vive la realtà, ma la realtà non vive in lei. </span><span style="font-size: 100%; ">E' ribellione interna: il suo corpo e la sua mente rigettano l'ordine delle cose, ma in particolare ciò che viene rigettato è la concezione sociale del corpo: quell'imposizione ad una risposta immediata e all'unisono di corpo e mente al sesso, all'attrazione, all'altro. Ci prova continuamente, si esercita al bacio con la migliore amica Bella e studia il suo corpo clinicamente, scopre il sesso, ma ugualmente ne è fuori. E' spettatrice di se stessa. </span></p><p class="p1" style="text-align: justify; font-size: 100%; "><span style="font-size: 100%; "><br /></span></p><p class="p1" style="text-align: justify; font-size: 100%; "><span style="font-size: 100%; ">Mai si sarebbe detto prima del film di <b>Athina Rachel Tsangari</b> che un mondo interiore autistico potesse essere tanto sognante e poetico. Le due amiche canticchiano <i>Toutes les garcons et le filles de mon age</i> mentre passeggiano verso di noi in un'infinita carrellata, mentre la vita intorno procede noncurante, Marina e Bella affermano e ribadiscono il loro essere fuori tempo rispetto al mondo circostante: le freaks di <i>Attenberg</i> sarebbero state amate da Diane Arbus. </span><span style="font-size: 100%; ">Marina non risponde agli schemi imposti, semplicemente assimila i comportamenti altrui nella forma, senza assorbirne la sostanza o farli propri. L'interesse verso gli altri è più di carattere antropologico, come dimostrano i documentari di</span><b style="font-size: 100%; "> David Attenborough</b><span style="font-size: 100%; "> sempre presenti - Attenberg appunto, perché persino le parole sono plasmate e filtrate dai personaggi. La sua osservazione meccanicistica degli istinti animali conferma l'incapacità della protagonista di comprendere gli esseri umani: nessuna attrazione per l'altro, solo un amore profondo e sconfinato per il padre.</span></p> <p class="p3" style="text-align: justify; font-weight: normal; font-size: 100%; font-style: normal; "><br /></p> <p class="p4" style="text-align: justify; font-size: 100%; "><span style="font-weight: normal; "><span style="font-style: normal; ">La com-passione, nel senso originario del termine, il sentire empaticamente l'altro, è il tema più interessante di </span><i>Attenberg</i>: la poesia del film non nasce dalla drammaticità, ma dalla goffaggine e dall'ironia che irradiano i personaggi, delicati e sottili, e da una sensibilità disarmante nei confronti della diversità. La recitazione straniante dell'attrice </span><b>Ariane Labed</b> (Coppa Volpi a Venezia) e gli inusuali intermezzi grotteschi alimentano un mondo che non ci appartiene, ma che per un istante sfioriamo.</p> <p class="p3" style="text-align: justify; font-weight: normal; font-size: 100%; font-style: normal; "><br /></p> <p class="p4" style="text-align: justify; font-size: 100%; font-style: normal; "><span style="font-weight: normal; ">"L'altro è indispensabile alla mia esistenza, così come alla conoscenza che ho di me" diceva Sartre. Per esistere abbiamo bisogno degli altri, della realtà del mondo in cui viviamo: ma, infondo, siamo noi che proiettiamo noi stessi sul mondo esterno. E' questo che </span><b>Athina Rachel Tsangari</b> tenta di dirci, e per quanto disorientante e faticoso, il favoloso mondo di Marina persiste nella mente, come un profumo dalle note profonde, che ricordiamo nel tempo senza ragione. </p>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com214tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-15358424816962998572012-03-01T11:59:00.012+01:002012-03-09T19:59:44.167+01:00CHICO y RITA, FIABA CUBANA<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgT4NjOaAAdPZm4XN9xFz8F6JxyW39zH4ReeNIIBIau5tlLZ_FKHHRohi8YGbalVswlOUqJ3EUYxAwjpBLIYjCX_60yLvuZdg_iExxJ5V6ikGL0o7U1dahTKuS_PvtdyIIStSpXr_zSD4QI/s1600/chico_y_rita10gr.jpg" style="font-style: normal; font-weight: normal; "><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 180px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgT4NjOaAAdPZm4XN9xFz8F6JxyW39zH4ReeNIIBIau5tlLZ_FKHHRohi8YGbalVswlOUqJ3EUYxAwjpBLIYjCX_60yLvuZdg_iExxJ5V6ikGL0o7U1dahTKuS_PvtdyIIStSpXr_zSD4QI/s320/chico_y_rita10gr.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5714882224658974194" /></a><p style="font-style: normal; font-weight: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><span style="font-style: normal; ">Anche l'animazione ha una sua storia, parallela a quella del cinema; qualche volta i due si sono presi per mano. La tecnica del </span><i>Rotoscope</i> ha origini lontane: non si tratta di disegni e idee nate dalla penna degli autori, ma di persone, attori e luoghi realmente esistiti, resi solo successivamente immagini animate. C'è un incredibile confusione sul ruolo dell'animazione nel cinema contemporaneo: i puristi rigettano tale tecnica, mentre lo spettatore medio rifiuta persino di prendere in considerazione un qualsiasi film d'animazione con serietà: la legittimazione a statuto artistico è ben lontana.</p><p style="font-style: normal; font-weight: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><br /></p><p style="font-style: normal; font-weight: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; ">Possiamo concordare sul fatto che il rotoscope sia qualcosa di diverso dall'animazione pura: questo perché le immagini prodotte hanno un legame fotografico - fisico - con la realtà. <b style="font-style: normal; ">Peirce</b> distingueva i segni in tre categorie: gli indici, le icone e i simboli. Le icone hanno con l'oggetto un legame di somiglianza, i simboli rimandano al loro referente come legge arbitraria, convenzionale, mentre gli indici sono segni in connessione con l'oggetto, segni fisici, perché in congiunzione "reale" con le cose. Non necessitano di astrazione mentale: sono traccia di ciò che è passato, che è stato, che è esistito. </p><p style="font-weight: normal; font-style: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><br /></p> <p style="font-weight: normal; font-style: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><span style="font-size: 100%; ">Perché sprecare tempo nel compiere un tale processo di astrazione, dal dato fisico di una realtà in divenire (la pellicola) alle immagini animate? A che scopo? Fin quando la linea di demarcazione tra cinema di animazione e di finzione era chiara (ma lo è davvero stata?), tutto andava bene: non appena si è cominciato a sperimentare, unire, trasformare, qualcosa è cambiato. Rigettiamo tutto ciò che non sia perfetta mimesi del mondo in cui viviamo: ma la verità è che l'immaginazione è cibo per la mente, ad ogni età: la fantasia é una parte importantissima per lo sviluppo della nostra personalità, per la realizzazione di ciò che siamo e ciò cui aspiriamo: "<i style="font-weight: normal; ">Nulla è più vero di ciò che si desidera</i>", sostiene lo psicologo Bruno Bettelheim.</span></p><p style="font-weight: normal; font-style: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><span style="font-size: 100%; "><br /></span></p> <p style="font-weight: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><span style="font-size: 100%; "><i style="font-style: normal; font-weight: normal; "><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=152953">Chico & Rita</a></i>, di <b style="font-style: normal; ">Fernando Trueba</b>, non è una fiaba per bambini: è una storia d'amore, che percorre luoghi e stagioni di vite vissute, ma è anche la favola del sogno americano, quello che uomini e donne di tutto il mondo hanno desiderato per decadi. In effetti, è una fiaba per adulti: esprime il desiderio di realizzazione della carriera, dei sentimenti, della sensualità (pensiamo alla danza seducente di Rita nel bar della prima notte). L'animazione di <i style="font-style: normal; ">Chico & Rita</i> ci porta più vicini al reale e di conseguenza più vicini alla realizzazione di quelle possibilità: un pò come un film in <i>techicolor</i>, ci fa sognare, senza condurci troppo vicino al mondo sconfinato dell'immaginazione pura: un piede a terra e uno in aria.</span></p><p style="font-weight: normal; font-style: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><span style="font-size: 100%; "><br /></span></p> <p style="text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><span style="font-style: normal; font-weight: normal; font-size: 100%; ">Perché l'animazione in </span><span style="font-weight: normal; font-size: 100%; "><i>rotoscope</i></span><span style="font-style: normal; font-weight: normal; font-size: 100%; ">? Perchè l'onirismo insito al processo di astrazione ci rende onnipotenti. Chico e Rita s</span><span style="font-style: normal; font-weight: normal; font-size: 100%; ">ono persone reali travestite da disegni animati, e come tali possono osare di più. Sono in nostri alter-ego e per questo si spingono dove noi non possiamo - o vogliamo - arrivare. La fiaba parla in genere di situazioni ordinarie e ci concede un alto livello di immersione</span><span style="font-style: normal; font-size: 100%; ">. </span><span style="font-style: normal; font-size: 100%; ">Ciò che distingue la fiaba dal sogno, è che il sogno esprime paure e pressioni quotidiane senza offrirci una soluzione: la fiaba ci mostra invece che nonostante sia necessaria una lotta, una soluzione esiste sempre.</span><span style="font-style: normal; font-size: 100%; "> Penso ai recenti film di <b>Richard Linklater</b>, <i>A scanner darkly</i> e <i>Waking life</i>, dove l'onirico prende il sopravvento e i piani della realtà, del sogno, dell'animazione stessa tendono a collidere</span><span style="font-style: normal; font-size: 100%; ">. Qui si giocava a varcare i confini, ma in questa intricata trama di storie, sogni e fiabe, è chiaro che mentre l'animazione è in cerca di un suo statuto, possiamo approfittare e assorbirne le sperimentazioni e i tentativi. Il cinema animato è un mondo di cui, in fondo, abbiamo bisogno. E per chi volesse intraprendere il sentiero, </span><span style="font-style: normal; font-size: 100%; "><i>Chico y Rita</i></span><span style="font-style: normal; font-size: 100%; "> è un ottimo punto di partenza.</span></p><p style="font-style: normal; text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "><br /></p> <p style="font-style: normal; font-weight: normal; margin-bottom: 0cm; "> </p>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com1677tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-48138069387887334322012-02-21T12:34:00.009+01:002012-02-21T13:04:34.602+01:00ANOTHER EARTH, ANOTHER ME<i style="font-size: 100%; ">"Ingenuo, che stai a cercar di afferrare un'immagine fugace? Quello che brami non esiste; quello che ami, se ti volti, lo fai svanire".</i><div><div><span><br /></span></div><div><span>Ovidio, <i>Le Metamorfosi</i></span><div style="font-size: 100%; "><br /><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhtOFOLVtjYdchFDuOFOI16ZZBOYECTTMLo3nounOco07_0mxLNJwvSQo5IHR4ZtAwU_GOPjUV65t9dgKx2OWN43DZPFAvqhYIFxp-6l0WRAuMhN1-Zx3dn6rAhSr3y59sBkpPDreillH5d/s1600/another-earth.jpg" style="font-style: normal; "><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 192px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhtOFOLVtjYdchFDuOFOI16ZZBOYECTTMLo3nounOco07_0mxLNJwvSQo5IHR4ZtAwU_GOPjUV65t9dgKx2OWN43DZPFAvqhYIFxp-6l0WRAuMhN1-Zx3dn6rAhSr3y59sBkpPDreillH5d/s320/another-earth.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5711551531098819362" /></a><p class="p1" style="text-align: justify; "> </p><p class="p1" style="text-align: justify;font-style: normal; ">Il fatto che sia uscito parallelamente al pluripremiato <a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=fr&documentID=198375"><span class="s1"><i>Melancholia</i></span></a>, potrebbe trarre in inganno: la verità è che <i>Another Earth</i> di <b>Mike Cahill</b> ha davvero poco da spartire con il film di <b>Lars Von Trier</b>. L'espediente cosmico (anche se non a caso se ne parla tanto nel 2012) è solo pretesto per una sottile riflessione filosofica, sulle tracce di un pianeta specchio che racconta la duplicità nell'individuo.</p> <p class="p1" style="text-align: justify;font-style: normal; ">Quante volte ci siamo chiesti se ci fosse un'altro noi, un'altra persona identica nello spazio e nel tempo e che magari si interrogasse allo stesso modo guardando lo spazio. <i>Another Earth</i> fonde questa eterna domanda esistenziale a uno scenario fantascientifico latente: non ritroviamo le atmosfere <span style="font-size: 100%; ">apocalittiche</span><span style="font-size: 100%; "> di </span><i style="font-size: 100%; ">Melancholia</i><span style="font-size: 100%; ">, ma piuttosto un clima introspettivo dove i silenzi e i dolori delle persone che abitano il pianeta "TERRA1" procedono noncuranti e si esprimono quotidianamente tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo.</span></p> <p class="p2" style="text-align: justify;font-style: normal; "><span style="font-size: 100%; ">Rhoda, una brillante studentessa, è alla guida di ritorno da una festa quando alla radio si parla di un nuovo pianeta visibile ad occhio nudo. Si affaccia al finestrino ammaliata da quella luce lontana, scontrandosi con un auto. Il pianeta comparso all'interno del sistema solare è un pianeta specchio alla terra, chiamato senza troppi indugi TERRA2, per via dei suoi mari, terre e persone apparentemente identiche a noi. Nulla di plateale ci attende: soltanto pensieri che si insinuano tra i silenzi di una giovane donna. L'esistenza su Terra2 può forse essere una seconda occasione? Un altro essere identico a noi. Un altro noi, che vive la nostra stessa vita. L'ombra, il doppio. Guardare il cielo e vederci riflessi lassù.</span></p> <p class="p2" style="text-align: justify;font-style: normal; "><span style="font-size: 100%; ">Fin dall'antichità si è parlato del doppio nell'essere umano: gli egizi con Ka esprimevano il concetto di doppio come proiezione vivente della figura umana. Il geroglifico utilizzato per descriverlo era caratterizzato da due braccia identiche e riflesse. Ovidio nelle </span><i style="font-size: 100%; ">Metamorfosi</i><span style="font-size: 100%; "> ci racconta del giovane Ermafrodito, figlio di Hérmes e Afrodite attanagliato dalla ninfa Salmacìde la quale riesce a diventare con lui un unico essere </span><span style="font-size: 100%; ">grazie ad una preghiera fatta agli déi</span><span style="font-size: 100%; "> </span><span style="font-size: 100%; ">. Ma più di tutti Narciso, che si specchia nelle acque e si perde nel suo riflesso - quindi in se stesso - per l'eternità: "Quel che bramo l'ho in me: ricchezza che equivale a povertà. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei che la cosa amata fosse più distante". Che sia stato un miraggio, un inconscio e profondo desiderio umano quello di vedersi fuori da sé, non ci è dato saperlo. Il cinema ha tuttavia il potere di rendere verosimili paure e desideri, di farci vivere, come in TERRA2, una seconda vita.</span></p> <p class="p2" style="text-align: justify;"><span style="font-size: 100%; ">Il doppio ci affascina e allo stesso tempo ci turba. Niente ci spaventa più di ciò che è simile, troppo simile; per questo il film </span><b style="font-size: 100%; ">Mike Cahill </b><span style="font-size: 100%; ">è una perfetta trasposizione dell'<i>un-heimlich</i> freudiano, il perturbante, la potente sensazione sprigionata quando estraneità e familiarità si uniscono. Cosa c'è di più perturbante di una copia esatta di tutto ciò che conosciamo, compresi noi stessi, identica eppure altra? Come la famosa fotografia che ritrae le bambine gemelle di Diane Arbus,<i> </i></span><i style="font-size: 100%; ">Another Earth</i><span style="font-size: 100%; "> ci pone in uno stato di totale immobilismo: ci affascina, ma ci rende impotenti, inermi. Se poi pensiamo al fatto che la posizione di spettatore cinematografico è caratterizzata proprio dal più totale immobilismo, da una partecipazione profondamente passiva allo spettacolo che gli si pone davanti, e - come se non bastasse - vede immagini che "riflettono" un mondo che in qualche luogo è stato reale, non se ne esce vivi. E questo rapido spunto di riflessione forse, può aiutare meglio a capire il senso di un film come </span><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=72877" style="font-size: 100%; "><span class="s1"><i>Inland Empire</i></span></a><span style="font-size: 100%; ">.</span></p> <p class="p2" style="text-align: justify;font-style: normal; "><span style="font-size: 100%; ">Altro che panico da fine del mondo. Il vero giorno del giudizio sarà quello in cui ci troveremo, faccia a faccia, con il nostro io.</span></p><p></p></div></div></div>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com98tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-22876319764194844652012-02-13T11:35:00.004+01:002012-02-13T11:56:53.400+01:00TOMBOY: IL GIOCO, L'ARTE, LA VITA<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmXQ8W0AE3UtepR7zXs9PyYgMONwkUywTF2nSkuxaT7NljwSSghRf6wyIn17N-FLtcBOykhSSo06iI1m0k0u4fJI9DN7Nsgsyp4fPhI5lNJOcoTJxdU41_NzI2fo9p2jIGnP6DUv2Rugmv/s1600/tomboy.jpg" style="font-family: Georgia, serif; font-size: 100%; font-style: normal; font-variant: normal; font-weight: normal; line-height: normal; "><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 195px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjmXQ8W0AE3UtepR7zXs9PyYgMONwkUywTF2nSkuxaT7NljwSSghRf6wyIn17N-FLtcBOykhSSo06iI1m0k0u4fJI9DN7Nsgsyp4fPhI5lNJOcoTJxdU41_NzI2fo9p2jIGnP6DUv2Rugmv/s320/tomboy.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5708571068089608722" /></a><p style="text-align: justify; margin-bottom: 0cm; "></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>Il bello del cinema è che può percorrere un universo sconfinato di possibilità. Un film può essere tutto ciò che vuole, mantenendone lo statuto e la legittimità: il kolossal farcito con milioni di dollari di effetti speciali, o una piccola produzione che ricerchi la sua identità in altro, lontano dalle mirabolanti attrattive del <i>made</i> in USA. Credo sia un pò come l'abitudine a mangiare cibi molto salati. L'assuefazione al sale ci rende impossibile percepire il sapore di quelli delicati o sconditi, ma se solo ci riabituiamo al vero gusto delle cose, quello più semplice, genuino e reale, allora non riusciremo più a tornare indietro. Forse sì, dovremmo “disintossicarci” ogni tanto dal cinema plateale e spettacolare (almeno in parte) per gustarci la poesia e la sensibilità di film come <i><a href="http://cineuropa.org/ffocusarticle.aspx?lang=it&documentID=201059&treeID=2224">Tomboy</a></i>. Nessun accadimento speciale, nessun cataclisma, nessuna guerra, nessun amore folle e smisurato. Solo la semplice quotidianità di una bambina che, in crisi di identità sessuale, vorrebbe essere un maschio per giocare a calcio e piacere alla bella Lisa. Una storia che si sarebbe potuta rendere densa di pathos, creando il classico alone di vergogna, disprezzo, paura o perfino suspence. Invece la regista <b>Céline Sciamma</b> ci mette di fronte allo specchio al fianco di Laure: lei si toglie la maglietta e guarda quel corpo ancora privo di connotazioni sessuali che le permette di giocare ad essere altro. Noi siamo lì, e non ce ne andiamo.</span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><br /></span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>Il vero quesito di <i><a href="http://cineuropa.org/ffocusarticle.aspx?lang=it&documentID=201059&treeID=2224">Tomboy</a></i> non è se Laure sia gay oppure no. Si tratta piuttosto di un momento, di una tranche de vie nella scoperta di se stessi e del mondo esterno. Infondo chi può definirsi una persona completa a dieci anni? Perché ci si aspetta che l'identità sessuale sia qualcosa di determinato sin dalla tenera età, come se fosse niente di più di un carattere ereditario? A volte, quando l'istinto entra in conflitto con le pressioni sociali, è necessario scegliere. In questo caso, la futura connotazione sessuale non ha davvero alcuna importanza. Il diritto ad uscire da se stessi, il diritto a sperimentarsi, a giocare con la propria identità, è qualcosa di negato nella quotidianità dalla nostra cultura, eppure se riflettiamo ci rendiamo conto che da secoli è sublimata nel teatro (pensiamo alla maschera, al travestimento, al recitare un ruolo) e ovviamente anche nel cinema stesso. Il termine “Persona” deriva dall'etrusco <i>Fersu</i>, cioè maschera. Vita e scena non sono poi così distanti in conclusione. In effetti cosa caratterizza la nostra identità, il nostro essere persona? Ciò che rimane immutabile, in un vortice continuo di cambiamenti: la continuità è tutto ciò cui possiamo aggrapparci per definire ciò che siamo. Il gioco imita la vita e i suoi modelli, quei modelli che la società si aspetta vengano presto fatti propri dall'individuo. Il gioco, l'arte e il teatro sono la stessa cosa: sono un tentativo di affermazione della vita e della propria, personalissima, versione di essa. E come avviene nel sogno, possiamo sfruttarli per sperimentare le vite degli altri, le infinite possibilità che ci si presentano davanti, permettendoci di far confluire le nostre pulsioni inespresse là dove sono legittime e accettate.</span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><br /></span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>A volte, tuttavia, avviene un cortocircuito. Il bello di <i><a href="http://cineuropa.org/ffocusarticle.aspx?lang=it&documentID=201059&treeID=2224">Tomboy</a></i>, è l'essere chiamati a schierarsi dalla parte dei più piccoli, come raramente nel grande cinema (eccezioni che ritroviamo ne <i>I 400 Colpi</i> di <b>Truffaut</b>, ancor prima in <i>Zero in condotta</i> di <b>Jean Vigo</b>, e nel più recente <i>La guerra dei fiori rossi</i> di <b>Zhang Yuan</b>) . Qualunque sia stata la nostra infanzia, riusciamo a capire Laure, empaticamente, a sentirla. E alla fine? Cosa ci resterà di questo film? Forse non un grande appagamento, nessun messaggio profondo, nessuna scossa emotiva: solo la scia di qualcosa che è stato, la traccia di un'estate vissuta, o sognata. 82 minuti che ci hanno permesso di abitare la vita di qualcun altro, e forse, di essere abitati a nostra volta. Poco importa di quel che ne sarà dopo.</span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><br /></span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>Ebbene sì, il cinema può essere anche questo.</span></p><p></p>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com140tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-84681461528661442002012-01-24T12:58:00.022+01:002012-01-24T16:21:15.197+01:00THE AMERICAN DREAM<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhmidXWLU7tdBsbGmoAPSSeJy4cXij3jFG5X1OEiIhQtUEM6balHCguZRO590Rqhx7JOuGnhPDfw0FZyOmBdZNascHpK26ejVnYqxSiFTiCyQOjLvq_BITZrtX0hgyeIdWR8nPyIXTAWRsW/s1600/shame6.jpg"><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 204px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhmidXWLU7tdBsbGmoAPSSeJy4cXij3jFG5X1OEiIhQtUEM6balHCguZRO590Rqhx7JOuGnhPDfw0FZyOmBdZNascHpK26ejVnYqxSiFTiCyQOjLvq_BITZrtX0hgyeIdWR8nPyIXTAWRsW/s320/shame6.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5701167239951381762" /></a><p class="p1" style="text-align: justify;">Nel cinema é sufficiente un'inquadratura per invertire il senso e mostrarci una versione inedita del nostro mondo. Magari fosse così semplice anche nella vita: "uscire" dalla scena, vedersi da fuori, come spettatori privi di giudizio. Brandon cena con una donna nell’ennesimo ristorante chic di Manhattan: la musica, l'atmosfera, il menù, sono gli stessi di sempre. La conversazione é forse poco brillante, ma nel complesso niente sembra essere fuori posto, perché un'utopica New York avvolge tutto rassicurandoci e ricordandoci che quello é il sogno americano: e il sogno americano, si sa, é il sogno di tutti noi. All'improvviso il punto di vista cambia. Siamo fuori dal ristorante, in strada, e osserviamo ogni cosa da una nuova prospettiva. Quel che vediamo ora, tra luci riflesse e rumore di clacson, é una città assordante, caotica, opprimente, che concede alle vite il loro breve, brevissimo, momento di gloria, prima di fagocitarle e lasciarle nuovamente senza voce. Sono queste sottili allusioni, questi delicati e sapienti tocchi, che fanno capire il perché di un film come <i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=208516">Shame</a></i>. <b>Steve McQueen</b> non ostenta. Lascia solo piccole tracce, sapientemente nascoste allo spettatore disinteressato, per condurci fuori dal sentiero battuto e raccontarci qualcosa di più su quel luogo-mondo che é la New York cinematografica.</p> <p class="p1" style="text-align: justify;"><br /></p> <p class="p2" style="text-align: justify;">Si dice spesso che andando a New York si abbia l'impressione di vivere un dejà-vu. Ogni strada, ogni angolo, appare inedito e al contempo familiare. Grazie al cinema l'abbiamo percorsa di notte e di giorno sui taxi e camminando lungo i marciapiedi. I nostri occhi si sono nutriti della celebre skyline, che cambiava con la luce, le stagioni e gli anni. New York grazie al cinema é diventata un<i> non-luogo</i> di transito tra il reale e l'immaginario collettivo, cambiando intimamente tutti noi, plasmando una nuova civiltà. <b>Georg Simmel</b> scrive che l'epoca moderna ha come simbolo il denaro e come luogo la Grande Città. Si tratta di un'epoca caratterizzata dall'impersonalità dei valori umani, dal distacco, dalla prevaricazione dell'intelletto sulle emozioni. L'attività neuronale dell'uomo metropolitano é molto veloce, accellerata in vista del bombardamento di stimoli quotidiani cui é sottoposto, per permettergli repentini e continui adattamenti interni. I suoi bisogni reali sono là sotto, nascosti chissà dove. L'uomo metropolitano, secondo Simmel, é mobile, fluido, plasmabile: si trova a oscillare eternamente tra il bisogno di socializzazione e di personalizzazione, pena la solitudine o l'omologazione. Siamo su una giostra impazzita da cui é impossibile - o difficile - scendere.</p> <p class="p1" style="text-align: justify;"><br /></p> <p class="p2" style="text-align: justify;">Non c'é da sorprendersi se proprio oggi soffriamo dei più svariati disturbi: nevrosi, ansia, depressione, insonnia, ossessività, compulsività. Il cinema, la televisione e più in generale la cultura popolare sembrano avere plasmato i nostri gusti e i nostri ritmi, ci hanno detto cosa mangiare, come passare il nostro tempo libero, cosa sia la bello e cosa no, e soprattutto ha ben delineato cosa ci rende diversi e disprezzabili. Abbiamo imparato a reprimere i nostri veri bisogni, il nostro vero sentire. Il sogno del self-made-man americano, ancora fortemente impresso nell'inconscio collettivo della società occidentale, é incarnato oggi nel quarantenne professionista newyorchese, distaccato e irraggiungibile, proprietario di una bella casa, con abiti costosi, un lavoro sicuro e redditizio, e che, libero da rapporti troppo vincolanti, può avere tutte le donne che vuole, quando vuole. Ma la verità é che nessuno vorrebbe essere come Brandon. Nessuno invidia un uomo solo, nel suo attico, che mangia cibo spazzatura e guarda film porno. Nessuno aspira ad andare a letto con centinaia di belle donne, se poi non é fisicamente in grado di farlo con la persona per cui prova qualcosa. Brandon corre di notte per le strade di Manhattan, una lunghissima carrellata lo segue senza tregua, la città é ad ogni angolo identica e indifferente. La sorella Sissy, patologicamente attratta da uomini sbagliati e con tendenze suicide, fa meno pena di lui: forse perché, a differenza sua, ammette di essere imperfetta. Brandon soffre di <i>sex addiction</i>, una vera e propria patologia paragonabile a qualsiasi tossicodipendenza, ma visto dall'esterno sembra l'uomo che tutti vorrebbero essere. Quanti ce ne sono come lui? </p> <p class="p1" style="text-align: justify;"><br /></p> <p class="p3" style="text-align: justify;">Ancora Simmel ci dice che oggi, grazie agli automatismi, non dobbiamo più preoccuparci di sopravvivere, ma piuttosto di realizzare le nostre possibilità inespresse. Troviamo <span class="s1">l'essenziale nell'inessenziale</span>: come i sogni, le opere d'arte, i film. Varchiamo la parete dello specchio che separa il reale dall'immaginario, giungendo in un mondo senza spessore che ci sembra più importante di quello in cui viviamo: questa illusione ci nutre, ci apre finestre su mondi inediti che appaiono ai nostri occhi un'esistenza più degna di essere vissuta. Le nostre vite sembrano così piccole, insignificanti. <i>Shame</i> ci fa pensare: é questo il sogno americano? Lasciare che il cinema ci schiacci o ci restituisca grande dignità, questo é il problema.</p>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com35tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-7681775028409066252012-01-15T12:04:00.016+01:002012-01-15T13:16:09.965+01:00PINA 3D: il corpo come tramite<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj9OBZCpFirkGCwiFBQ_5kgXjS7EqMz5Pc9gbIkHEJ5wmaALMI5H98utMr8OFvqqLa03Ha3PJmm_EQRd4Fxx2acMFoiHkqOk1Qcn4EUCj7G_13LcZVxsiQ2NkJsmj5ZLag1WKGbUkwdsBgx/s1600/pina.jpg"><img style="text-align: justify;display: block; margin-top: 0px; margin-right: auto; margin-bottom: 10px; margin-left: auto; cursor: pointer; width: 320px; height: 214px; " src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj9OBZCpFirkGCwiFBQ_5kgXjS7EqMz5Pc9gbIkHEJ5wmaALMI5H98utMr8OFvqqLa03Ha3PJmm_EQRd4Fxx2acMFoiHkqOk1Qcn4EUCj7G_13LcZVxsiQ2NkJsmj5ZLag1WKGbUkwdsBgx/s320/pina.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5697815051453771522" /></a><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>I corpi sono posseduti, estatici. Qualcosa li attraversa per arrivare a noi. Sembrano entità a sé, messaggeri di una visionaria <b>Pina Bausch</b> che entrano in scena, danzano portando il loro messaggio e ne escono svuotati, esaurendosi in quell'unico atto. </span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><br /></span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; ">Gli artisti del <b>Tanztheater</b> rappresentano un fortunato ibrido di danzatori e attori, dove il corpo è veicolo di un messaggio totale e autonomo. Ci permettono di vivere un viaggio interiore attraverso le nevrosi e le psicosi umane, un <i>work in progress</i> che vediamo svilupparsi davanti ai nostri occhi. In uno stato di estasi (estasi appunto come annullamento del sé) si fanno tramite di un disegno superiore, il disegno della pittrice di corpi Pina Bausch. I suoi danzatori sono un prolungamento di se stessa, tanti piccoli frammenti autoreferenziali e al tempo stesso autonomi. “<i>Pina was hidden in each one of our, and we were a part of her</i>”.</p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><br /></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>Un mondo di suggestioni radicali ed essenziali, fatto di visioni post-contemporanee, che <b><a href="http://cineuropa.org/2011/nw.aspx?t=newsdetail&l=en&did=142866">Wim Wenders</a></b> rende, se possibile, ancor più magiche: rimane un senso di pienezza e di bellezza, di ebrezza da stimoli visivi e concettuali. I movimenti di macchina e la fotografia valorizzano la teatralità del gesto e del volto, permettendo che l'obiettivo sia i nostri occhi e che essi incrocino quelli dei danzatori, alcuni dei quali ci trapassano indelebili. </span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><br /></span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>La danza è la prima forma di espressione artistica dell'essere umano, perché ha come strumento il corpo, è specchio della propria realtà e dei relativi comportamenti umani. Dal momento in cui qualcuno decise che mente e corpo fossero concetti distinti e separati si è assistito a una dissincronizzazione della nostra gestualità. Ce lo dice Pina attraverso il suo <i>Cafe Muller</i>, dove un uomo in giacca e cravatta costringe una coppia, in preda alla passione più spontanea, ad una catena di gesti meccanici e forzati, gettandoli nella frustrazione e nella disperazione. È lo strazio non di possedere, ma di essere sopra ogni cosa corpi, dell'avere una nostra propria naturalezza che il mondo tenta perennemente di mutare, plasmare, scardinare. Quella danza è lo strazio dei sentimenti che questi corpi vivono, fluiscono, incanalano. Il livello di possessione e di estasi di quei corpi è altissimo: evidente, osservandoli, il perché la chiesa cristiana volle condannare la danza. Il corpo riacquista dignità, si riappropria della sua originaria saggezza, ma con in più il dolore della consapevolezza: questo dolore è però inaspettatamente un dono di incredibile forza. Pina diceva ai suoi artisti: “<i>your fragility is also your strenght</i>” (la vostra fragilità è anche la vostra forza). </span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><br /></span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><b>Wenders</b> si mette al servizio di questo monologo onirico e visionario, in questo susseguirsi interminabile di mondi paralleli raccontati come flusso di coscienza - senza filtri - attraverso il linguaggio primordiale dei corpi. Ci sentiamo disorientati: il mondo di Pina ci assorbe così in profondità che ci perdiamo al suo interno. La Berlino che fa da sfondo è talmente integrata e assorbita dalla performance che ne è una naturale scenografia: persino il reale sembra piegarsi al suo cospetto. Viene da chiedersi, a questo punto, se l'effimero sia la traiettoria invisibile dei corpi o piuttosto il mondo come noi lo conosciamo. E se proprio il vostro livello di empatia e di “immersione” nel magico mondo non fosse ancora al suo apice, Wenders vi prende per mano, ve lo fa raggiungere attraverso le immagini in 3D. </span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span><br /></span></p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><span>La Bausch si raccontava attraverso un linguaggio fortemente allegorico, ad esempio la sedia ricorre come espediente nell'annullamento della gravità e nella costruzione di castelli effimeri e fragili che il corpo umano è costretto a sfidare: il suo lavoro è l'incontro fra il metodo catartico di Stanislawski e l'estrosità poliedrica, magmatica e sconfinata della danza contemporanea. </span>“<i>Dance! Dance!</i>” diceva Pina “<i>otherwise we are lost</i>” e aveva ragione. In un mondo di spersonalizzazione, omologazione, razionalizzazione, come quello in cui viviamo, in cui puniamo il nostro corpo seppur lui ci ripaga ogni giorno con la vita, il semplice gesto di danzare, come ricongiungimento tra il nostro corpo e le nostre emozioni, è l'atto di più forte affermazione individuale che possiamo compiere.</p><p style="text-align: justify;margin-bottom: 0cm; "><br /></p><p></p>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com25tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-20017108963202128602011-12-12T16:24:00.013+01:002011-12-12T17:17:48.420+01:00LE TRE ETA’ DELLA DONNA NEL CINEMA DI LARS VON TRIER<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTE1TwX_C6YZl7OvE0o5munjQLCqITOsYhAxkbvP0fCvaFPL3iaiPpA-BvYrhZNKuz3OlyISqe6vAZTGeYYLWKcxJc-3ZaOtVUwKTcempEJx-HI9xZfxCJ-Nf6vjywc_2C7sV0XtfuhE4r/s1600/melancholia.jpg" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}"><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 194px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTE1TwX_C6YZl7OvE0o5munjQLCqITOsYhAxkbvP0fCvaFPL3iaiPpA-BvYrhZNKuz3OlyISqe6vAZTGeYYLWKcxJc-3ZaOtVUwKTcempEJx-HI9xZfxCJ-Nf6vjywc_2C7sV0XtfuhE4r/s320/melancholia.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5685263907584045874" /></a><p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="IT"><span class="Apple-style-span"><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=198375"><i>Melancholia</i></a> è un pianeta che pare attrarre a sé. Come la luna, manifesta una forza di natura ignota, una sorta di arcaico magnetismo che spaventa e affascina. <o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="IT"><span class="Apple-style-span">L’ultimo film di <b>Lars Von Trier</b> si presenta come dittico: due sorelle, Justine e Claire, due unità (il matrimonio e l’avvicinarsi di Melancholia alla terra), un luogo/mondo, la proprietà di Claire e del marito, che ci attira come dentro la tana del bianconiglio, per scoprirne un universo insospettabile. Il senso di attesa apocalittica è reso attraverso ogni dettaglio: dialoghi, musica e fotografia si fondono per creare un onirismo tragico senza precedenti nel cinema del regista danese. <o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="IT"><span class="Apple-style-span">Come siamo arrivati a questo? Un tempo, le donne del cinema di Lars Von Trier erano alla deriva, incapaci di liberarsi dai soprusi, succubi della vita. Erano sole contro tutti, se non in senso fisico, di sicuro in senso esistenziale. Ricordo la Watson di <i><a href="http://cineuropa.org/2011/id.aspx?t=filmography&l=en&did=7185">Breaking The Waves</a></i>, e la sua eterna battaglia tra la fede e la vita (lì il nostro regista danese si divertiva sadicamente come un bambino alle prese con una lente d’ingrandimento e una formica). Solo quattro anni dopo, una meravigliosa Bjork - versione vontrieriana della <i>Jeanne d’Arc</i> di <b>Dreyer</b> - si muoveva come una marionetta a suon di musical in <i><a href="http://cineuropa.org/2011/id.aspx?t=filmography&l=en&did=7185">Dancer in the dark</a></i>. La dissonanza risultava tanto stridente (il dolore estenuante portato all’orlo del sopportabile e diabolicamente fuso all’allegria patinata del musical) quanto magnifica. Poi ci fu una Kidman insolitamente magra, ma non per questo meno diafana e affascinante, che in <i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=2628">Dogville</a></i> cercava di preservare parvenze di dignità umana tra i tratteggi di gesso di una città inesistente. Il suo essere donna - prima che persona - la penalizzava, spingendola verso un baratro sempre più profondo di soprusi e fastidiose incongruità (di quelle che tanto piacciono a Lars Von Trier, ma anche al caro <b>David</b> <b>Lynch</b>).<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="IT"><span class="Apple-style-span">Fino a quel momento le donne di Lars Von Trier, ci erano apparse come quegli incubi da cui ci si vorrebbe svegliare urlando a pieni polmoni, eppure la voce sembra soffocata. Quelle donne erano tremendamente fittizie e implausibili, vicine alle tragiche eroine dei romanzi ottocenteschi con le quali ci s’identifica proprio perché quella sofferenza, portata alle estreme conseguenze, ci nutre di forza e coraggio, nonché di consapevolezza.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="IT"><span class="Apple-style-span">Poi è arrivato <i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=90345">Antichrist</a></i>. Qui la Gainsburg era l’incarnazione del maligno. L’uomo impotente di fronte a questa misteriosa energia che univa femminile e diabolico. La successione di capitoli ci conduceva in un intreccio estenuante e irritante (come in <i>Rosemary’s Baby</i> di <b>Polanski</b> sono l’immobilità, l’incapacità di reagire che rendono incubi i film di Von Trier).<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="IT"><span class="Apple-style-span">Con <a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=198375"><i>Melacholia</i></a>, il dualismo va a integrarsi al cosmo finora descritto, facendolo implodere, rendendolo altro. Claire è forse delle due sorelle quella che più si avvicina alle precedenti eroine vontrieriane, ma nulla nella sua sofferenza è enfatizzato come in passato. La sua è una vita di donna, madre, moglie, sorella devota e paziente, come tante ne esistono nella vita reale. E Justine potrebbe per alcuni versi essere accostata alla Gainsbourg di <i>Antichrist</i>, entrambe sono intimamente legate alle oscure forze di questo mondo (o dell’universo), ma la prima non possiede, ancora una volta, quelle connotazioni eccessivamente violente della seconda. <o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="IT"><span class="Apple-style-span">C’è chi ha scritto di <i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=90345">Melancholia</a></i> che le sorelle siano due facce della stessa donna, paragonandole alla coppia bergmaniana Elisabeth/Alma di <i>Persona</i>. Sappiamo sì che Lars Von Trier è da sempre un devoto ammiratore di <b>Bergman</b>, da qui il suo amore per le trilogie. Eppure nel cinema del regista svedese il duplice era solo espediente per indagini psicologiche profonde e sottili. Elisabeth e Alma erano due donne tanto differenti quanto simili, proprio come la coppia Betty/Rita in <i>Mulholland Drive</i>. Nel cinema di Bergman (e forse in quello di Lynch), gli opposti si fondono e si confondono. Gli opposti di <i>Melancholia</i> sono invece chiaramente didascalici: una moglie e madre devota e una giovane ribelle e selvaggia, che vive in un mondo sospeso e muta con il mutare dei corpi celesti. Dopo avere assimilato più di trent’anni di suoi film, sappiamo che Von Trier non tratta di variazioni/vibrazioni dell’anima ma piuttosto del senso archetipico della natura umana. Il femminile è fuso in un’unione profonda con il cosmo perché rappresenta la vita. Ogni forma di vita, almeno della vita per come noi la conosciamo. Jung parlava dei due opposti complementari Vecchio Saggio/Madre Terra. Madre Terra, il femmineo in senso cosmico, altro non è che l’archetipo della natura, della vita terrestre e di tutto ciò che è erotico e incontrollabile. <o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span"><span lang="IT">Ogni donna rappresenta il mondo dell’energia femminile incarnata, espressione dell’inafferrabilità del sentimento e dell’istinto. È il ritratto di Justine. Lei è istinto puro. Lei è terrestre, erotica, incontrollabile. La luce azzurra di Melancholia la strega, la ipnotizza e la fa (ci fa) vivere in un mondo surreale. Non a caso nella notte, il pianeta Melancholia si trova nel cielo affianco alla luna, elemento di modificazione e mutamenti sottili e impercettibili della terra. Claire osserva l’irrequietezza della sorella con un sofferente amore materno. Lei non conosce questa energia, ma quando Melancholia sfiora l’atmosfera terrestre, è l’unica cui manca il respiro. Ha paura, perché quello che sta accadendo è fuori da ogni controllo razionale, frutto dell’inevitabile destino cosmico. In quanto spettatori, proviamo pena per Claire come ne proviamo per Justine. Si tratta dello stesso pathos che provavamo di fronte all’urlo silente della </span><span style="background-image: initial; background-attachment: initial; background-origin: initial; background-clip: initial; background-color: white; background-position: initial initial; background-repeat: initial initial; ">Bess di <i>Breaking the Waves</i>, di fronte alle strazianti melodie della</span><span lang="IT"> Selma di <i>Dancer in the dark</i>, di fronte alla gentilezza incompresa della Grace di <i>Dogville</i>. Ciò che davvero è cambiato ora, è che se prima potevamo vedere uno spiraglio di luce al di là della complessa malignità dell’essere umano, ora il silenzioso e imperturbabile universo si scaglia contro l’uomo come un’antica divinità, e contro questo, purtroppo, non possiamo nulla. <o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span lang="IT"><o:p><span class="Apple-style-span"> </span></o:p></span></p> <!--EndFragment-->Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com58tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-40075874601626819352011-11-29T11:49:00.016+01:002011-12-01T17:09:50.244+01:00OSLO, AUGUST 31st: LA FELICITÀ NON È PIÙ DI MODA<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7bgPI3zcDBFczt2ooyG6JjBaFK3MA3ISggtzPtT-DFgWx5O-Yq1KtROTwu6QrVmWMgS0N4lsJED0FMHQHiBO7E2Lde0HO-bZilTLgOFc8cCJ5oacViyNCXgvbFmH5Sb16zmLfFwZJDMYK/s1600/osloaugust02.jpg"><img style="display: block; margin: 0px auto 10px; text-align: center; cursor: pointer; width: 320px; height: 161px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7bgPI3zcDBFczt2ooyG6JjBaFK3MA3ISggtzPtT-DFgWx5O-Yq1KtROTwu6QrVmWMgS0N4lsJED0FMHQHiBO7E2Lde0HO-bZilTLgOFc8cCJ5oacViyNCXgvbFmH5Sb16zmLfFwZJDMYK/s320/osloaugust02.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5680368760070341810" border="0" /></a><span class="Apple-style-span" style="border-collapse: collapse;font-family:arial,sans-serif;font-size:13px;" ><div style="text-align: justify;"><p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">Uno splendido prologo racconta ricordi frammentari e magmatici. Un giovane ex eroinomane vaga per le strade di Oslo, in cerca di un ricongiungimento con il mondo perduto. Solo 24 ore, descritte nel silenzio di una nordica giornata di fine agosto, ma infinitamente lunghe: lunghe quanto una vita intera. Sembra che tutto intorno a lui gli impedisca di tornare ad una vita normale, o piuttosto è egli stesso che non vuole nuovamente essere felice?</span></span></p> <p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">Già dal principio, Anders, protagonista di </span><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=it&documentID=202122"><span style="text-decoration: none;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">Oslo, August 31</span><sup><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">st</span></sup></span></a><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">, afferma di non provare più alcun desiderio o emozione. L’eroina é inibitrice dei neurotrasmettitori responsabili della produzione di endorfine: in altre parole, impedisce la produzione di sensazioni felici, donandone di artificiali. La dipendenza psichica é qualcosa di più complesso: lo squilibrio chimico si somma a un vero e proprio declino della qualità della vita. L’allontanamento delle persone spesso innesca senso di colpa, frustrazione, depressione.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">Anders é solo. Ascolta la vita degli altri in un flusso costante e ne prova invidia, mentre cerca debolmente di ricostruire le trame dei suoi legami. È il paradosso della vita di un addict: distaccato a livello emotivo e allo stesso tempo dipendente a livello economico. I genitori di Anders sono costretti a vendere la casa per sanare i debiti del figlio; la sorella non riesce nemmeno ad incontrarlo. Si innesca un circolo vizioso: chi ama ed é stato ferito si allontana. Per contro, chi si sente in colpa ferisce in modo recidivo.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">Sembrerebbe finita qui, eppure c’è dell’altro. È il film stesso a dircelo. Prima assistiamo a un colloquio di lavoro: tutto procede per il meglio, fino alla domanda “come mai c’è un vuoto di 5 anni, che cosa ha fatto in quel periodo?”. Il giovane confessa il suo passato. L’interlocutore esita qualche istante. Anders abbandona adirato la stanza, ma senza ragione, poiché nulla faceva pensare che la sua assunzione fosse compromessa. Più tardi, Il protagonista incontra l'attuale compagno della ex fidanzata. Dal suo punto di vista é lui il nemico, l’antagonista, l’amante. Si avvicina per dirgli che lo perdona, ma inaspettatamente l’altro controbatte: “tu non puoi nemmeno immaginare cosa abbia dovuto passare lei”. Anders si difende prontamente risollevando la questione droga, ma questa volta nessuna pietà: “conosco tante persone che hanno avuto problemi di droga, poi hanno ripreso in mano la propria vita rimboccandosi le maniche”.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">La verità è che Anders non solo non può, non vuole essere felice. Non sappiamo come fosse la sua vita prima di conoscere il mondo dell’eroina, possiamo solo supporre che fosse piuttosto agiata: una casa lussuosa, un’istruzione di alto livello. Il paradosso di Easterlin ci dice che il livello di felicità è inversamente proporzionale a quello della ricchezza economica. E’ come se fossimo tutto il tempo su un tapis roulant: non facciamo che correre freneticamente pur rimanendo sempre nello stesso punto. Secondo Easterlin il senso di soddisfazione provato dall’acquisto di un nuovo bene di consumo è effimero: il miglioramento è solo momentaneo e subito si torna allo stato precedente. Per recuperare il senso di piacere provato occorre possedere beni sempre maggiori, raggiungere un livello sempre più alto, in una corsa inarrestabile che allontana sempre di più dalla felicità. Questa metafora non si discosta molto dal mondo di Anders, e nemmeno dal nostro.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">Oggi parlare di felicità appare stupido o naif. Il giovane norvegese afferma di avere sempre pensato che le persone felici fossero idioti. Anche se le circostanze ce lo impediscono, o la paura, o le tendenze (ad esempio spesso nell’arte la sofferenza è ritenuta prerogativa essenziale, statuto stesso dell’arte), credo sia giunta l’ora, oggi più che mai, di rinnovare il concetto di felicità, eliminando secoli di scorie semantiche. Penso a una frase di Epicuro, il quale sosteneva che l’uomo potesse godere dei beni sensibili, purché non ne diventasse schiavo:<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">“Infondo ciò che veramente serve non é difficile a trovarsi, l’inutile é difficile”.</span><o:p></o:p></span></p> <p class="MsoNormal"><o:p><span class="Apple-style-span" style="font-family:'times new roman';"><span class="Apple-style-span" style="font-size:medium;"> </span></span></o:p></p> <!--EndFragment--> </div></span>Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com46tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-35920932260452613392011-11-21T12:48:00.014+01:002011-11-21T13:05:48.646+01:00LOVERBOY: LADIES FIRST<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhoZzY4gPWePpKBBWq4Y0Sf0kD5UB9Vew-TxLLVRhnVLSOldoiK8Sc9sLLPUB7KL5fPttf1egCt-QKafU63DhCuJk6WRO7raB5T9uMRdY_ptOrli3-eIF0NOvAKLXmd-p2BhinD1h6mQDoh/s1600/loverboy.jpg" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}"><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 213px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhoZzY4gPWePpKBBWq4Y0Sf0kD5UB9Vew-TxLLVRhnVLSOldoiK8Sc9sLLPUB7KL5fPttf1egCt-QKafU63DhCuJk6WRO7raB5T9uMRdY_ptOrli3-eIF0NOvAKLXmd-p2BhinD1h6mQDoh/s320/loverboy.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5677415643565536930" /></a><p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;"><span lang="IT" style="color:#353535;">Secondo recenti sondaggi, ogni due minuti in Romania una donna viene picchiata</span><span lang="IT" style="color:#353535;">, e quasi sempre l’aggressore è il marito o il compagno. Molte non si ribellano nemmeno a tali soprusi: si limitano a sperare in un futuro migliore e continuano a dichiararsi innamorate dell’aggressore. Questa società patriarcale, tradizionalista e misogina, è anche la principale fornitrice di donne per il mercato della prostituzione. <o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(53, 53, 53); ">Luca, protagonista di <i style="mso-bidi-font-style:normal"><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=it&documentID=201768">Loverboy</a></i></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(53, 53, 53); "><i style="mso-bidi-font-style:normal"> </i>del rumeno <b>Catalin Mitulescu,</b></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(53, 53, 53); "> spinge giovani ragazze a prostituirsi facendole innamorare di lui e promettendo loro un futuro insieme. Quando conosce Veli, qualcosa cambia. Si dichiara innamorato, eppure spesso si dimostra irascibile e violento. Lei lo serve e accudisce come una madre, ma questo sembra non bastare, qualcosa lo rende perennemente irrequieto e distante. Vorrebbe contraccambiare il suo amore candido e devoto, ma qualcosa pare impedirlo.</span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(53, 53, 53); font-family:arial;font-size:100%;">I film sono sempre specchio sociale, anche quando non aspirano a esserlo.<span> </span><i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=it&documentID=201768">LoverBoy</a></i> vede il delinearsi del volto della donna rumena semplicemente raccontandosi, senza pretese di denuncia, come semplice specchio del reale. Le donne del film <i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=it&documentID=201768">Loverboy</a></i> sono donne alla deriva, co-dipendenti dall’uomo, perché nella loro terra questo sembra essere l’unico mondo possibile. Sono donne forti, molto più forti di quanto sappiano, ma vivono in un mondo di contraddizioni incolmabili. La Romania è un paese povero che aspira al benessere. Non raggiungendolo, lo emula nei suoi aspetti più superficiali e appariscenti. I ragazzi viaggiano su automobili costose, percorrendo strade sterrate che attraversano il nulla e indossano abiti firmati pur vivendo in roulotte. Le immagini del mondo consumistico spesso si insinuano in realtà differenti dal contesto che le ha generate e rese plausibili: ed è così che le donne diventano ambivalenti, perché ambivalente è il mondo in cui vivono. Accettano di essere al tempo stesso le madri e gli oggetti sessuali dei loro uomini. Come spiega Luca a Veli: il sesso e l'amore sono due cose diverse, è possibile prostituirsi se lo si fa al nobile scopo di mettere da parte soldi per costruire un futuro con il proprio uomo.</span></p><p class="MsoNormal" style="text-align:justify"></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(53, 53, 53); "><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Forse non in Romania, ma il femminismo negli anni '70 aveva cercato di liberare, almeno in parte, il corpo femminile da queste trappole. Eppure, mai come oggi il corpo della donna è lontano da questa liberazione. Esso è sprofondato in un vortice di aspettative non soddisfabili proposte dai media, i quali continuano a distorcere i nostri desideri generando frustrazione. Del resto, è l'ottica consumistica per eccellenza, desiderare qualcosa che non ci serve e che non possiamo permetterci di avere, anche quando si tratta del nostro stesso corpo. Queste distorsioni spingono le donne ai gesti più disperati, dalla chirurgia plastica all'ossessione per la forma fisica, sconfinando in disordini alimentari cui la società fa l'occhiolino. Non a caso si torna proprio oggi a riproporre questo argomento, come dimostra il documentario <i><a href="http://www.ilcorpodelledonne.net/?page_id=89">Il corpo delle donne</a></i> di <b>Lorella Zanardo</b> sull'immagine del corpo femminile nella televisione italiana.</span></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span lang="ES-TRAD"><o:p><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;"> </span></o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span lang="IT" style="mso-bidi-mso-ansi-language:IT;color:#353535;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Scrive Lea Melandri, nel libro <i>Partire dal corpo</i>, che la violenza sulla donna esiste dall'alba dei tempi e si basa su una scomoda verità: l'uomo si accanisce contro il corpo che l'ha generato. La violenza è sempre esistita, ma solo di recente è uscita dal privato e dal silenzio. <i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=it&documentID=201768">Loverboy</a></i> ci mostra un mondo dove questa violenza, quotidiana e costante, rimane celata nell'intimità. Le donne che Luca seduce e fa innamorare, si rifiutano di denunciarlo, perché credono nell'amore sopra ogni cosa, anche a costo di rinunciare al loro stesso corpo, alla loro identità. C'è qualcosa di assurdo in tutto questo.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(53, 53, 53); "><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Freud affermava che ci fosse un fattore molesto nella civiltà: l'uomo non è una creatura mansueta, infatti, spesso si accanisce proprio sull'oggetto d'amore di cui avrebbe bisogno. Secondo lui, l'<span style="mso-bidi-font-style:italic">eros</span> è in conflitto con la <span style="mso-bidi-font-style:italic">civiltà</span>, perché il primo implica una chiusura al mondo esteriore (la coppia o la famiglia diventano entità che bastano a se stesse) e questo crea frustrazione causa la naturale propensione umana a vivere nella civiltà. In poche parole, l'amore è un ostacolo agli altri rapporti. Eppure una forza istintiva ci spinge a cercarlo.</span></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(53, 53, 53); "><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">È possibile amare - amare veramente - una donna in un mondo in cui è vista soprattutto come oggetto sessuale, dove il suo corpo è merce e il suo ruolo immutabile? <i><a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=it&documentID=201768">Loverboy</a></i> ci risponde che, semplicemente, è difficile.</span></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span lang="ES-TRAD"><o:p><span class="Apple-style-span" style="font-family:'times new roman';font-size:100%;"> </span></o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span lang="IT" style="mso-bidi-mso-ansi-language:IT;font-family:Arial;color:#353535;"><o:p><span class="Apple-style-span" style="font-family:'times new roman';font-size:100%;"> </span></o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span lang="ES-TRAD"><o:p><span class="Apple-style-span" style="font-family:'times new roman';font-size:100%;"> </span></o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style="text-align:justify"><span lang="IT" style="mso-bidi-mso-ansi-language:IT;font-family:Arial;color:#353535;"><o:p><span class="Apple-style-span" style="font-family:'times new roman';font-size:100%;"> </span></o:p></span></p> <!--EndFragment-->Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com28tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-40519548630307457312011-11-14T14:37:00.015+01:002011-11-21T13:05:18.156+01:00THE ARTIST E LA PAURA DEL CAMBIAMENTO<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiGr7YIK8lnZGMSBlUqgKdBqNyyFy_ZG-NgIcEWsvcEIQgSa3WgDQLvrToS4aGNW0i82uWQSF1t6i_pNPNTChpiCyoK7SEoEzpnXaxcfiYqxt3IHt1vY6Q1zObNHUvl-bjpLgqRRj9-iW1v/s1600/ARTIST.jpg" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 186px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiGr7YIK8lnZGMSBlUqgKdBqNyyFy_ZG-NgIcEWsvcEIQgSa3WgDQLvrToS4aGNW0i82uWQSF1t6i_pNPNTChpiCyoK7SEoEzpnXaxcfiYqxt3IHt1vY6Q1zObNHUvl-bjpLgqRRj9-iW1v/s320/ARTIST.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5674853463472618914" /></a><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">L’introduzione del sonoro nel cinema ha rappresentato un cambiamento di dimensioni epocali, sia per la conseguente evoluzione tecnologica, che per il drastico ribaltamento delle poetiche attoriali e registiche. Molti attori del cinema muto da un anno all'altro si ritrovarono dall'essere venerati come divinità al totale anonimato, per la semplice incapacità – e a volte impossibilità - di adattamento. Esemplare, prima di <a href="http://cineuropa.org/ffocusarticle.aspx?lang=en&documentID=210257&treeID=2301"><i>The Artist</i></a>, è il caso di Gloria Swanson descritta da <b>Billy Wilder</b> nell’epico e decadente <i>Sunset Boulevard</i> (indimenticabile la scena di Buster Keaton e le celebrità del muto che giocano a carte nella fantasmatica villa). </span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">George Valentino è una star del cinema muto, osannato da produttori e fans. La sua vita incrocia quella della giovane e sognante Peppy, innamorata di lui come qualunque donna dell'epoca, che fa di tutto per recitare al suo fianco in un film. George ne è ammaliato: la spronerà, le darà consigli, e lei ben presto diventerà una star. Parallelamente, la carriera di George è in declino: la sua casa di produzione abbandona le pellicole mute e lui si rifiuta di recitare in un film sonoro. Il suo fedelissimo cane (che ci ricorda <i>Umberto D</i>. di <b>Vittorio De Sica</b>) e Peppy non vogliono abbandonarlo nel baratro in cui sembra sprofondare.</span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;"><i>The Artist</i> è un film muto che racconta del cinema muto. Solo gli oggetti emettono suoni, escludendo il chiacchiericcio informe del finale: rievoca le pellicole di <b>Jacques Tati</b>, e l’esibizione di Charlot in <i>Modern Times</i>, quando si rifiuta di pronunciare parole di senso compiuto. Carico di rimandi cinematografici, <i>The Artist</i> ricorda come qualsiasi cambiamento ci ponga di fronte ad una situazione apparentemente insormontabile, ma che nel tempo sarà vista come normale evoluzione. Prima c'è stato il passaggio al sonoro, poi si è abbandonata la pellicola, il supporto, e siamo entrati in un mondo di algoritmi che è il digitale. Oggi, siamo giunti al cinema 3D. In ognuno di questi passaggi, c'è stato chi ha creduto che il cinema fosse morto, che fosse terminato là dove il cambiamento ne avesse modificato lo statuto stesso. C'è chi sosteneva e tuttora sostiene che il cinema muto fosse l’unico possibile. Chi pensa che il cinema sia solo in 35 mm. Chi pensa che il cinema 3D sia una meteora destinata a estinguersi con l'animazione Pixar. Il cinema, di fatto, è ancora lì. Le sale ancora popolate di gente. Si tratta probabilmente di qualcosa di più astratto, un concetto, prima che materia specifica.</span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Oggi più che mai, il cambiamento ha una connotazione spaventosa. Assistiamo a una crescita esponenziale della tecnologia: ciò che prima avveniva in secoli, poi in decenni, oggi avviene in un anno, se non in pochi mesi. Le persone sembrano passivamente assorbire tali cambiamenti, inglobarli nella propria quotidianità senza particolari problemi: pensiamo solo a come sarebbe oggi la nostra vita senza Internet. Vi siete mai trovati di fronte un IPod chiedendovi come possa esserci musica all'interno? Io non riesco a smettere di provare stupore per il minuscolo oggetto che ho di fronte. Apparentemente l'uomo si adatta a questi cambiamenti, ma il suo pensiero, che è pensiero di un'intera epoca, è veramente al passo con questa evoluzione? Il tutto sembra sfuggirci di mano, il tutto arriva prima di noi. Solo alcuni, profeticamente o semplicemente per intuito, riescono a fare propria l’innovazione prima degli altri, a stare sopra quest'onda mastodontica del cambiamento (vedi l'utilizzo del 3D per <a href="http://cineuropa.org/film.aspx?lang=en&documentID=194596"><i>Pina</i></a> di <b>Wim Wenders</b>, introducendolo nel cinema autoriale).</span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">George teme il cambiamento, ha orrore di un mondo sonoro (nei suoi peggiori incubi, gli oggetti comuni emettono suoni). Molti di noi oggi temono un mondo inconsistente fatto di ologrammi, di trasferimenti dati e d’interfacce che lo fanno apparire ancora analogico. Perché il nostro pensiero è (almeno per ora) analogico. E così, abbiamo un appiglio per mantenerci ancorati al vecchio mondo, allentando l’ansia che proveremmo per una realtà caratterizzata da un flusso costante di numeri, solo numeri (lo dicevano i <b>Fratelli Wachowski</b> a fine anni Novanta). Anche noi, come George, abbiamo paura. Paura che il progresso tecnologico sarà sempre un passo (o dieci) avanti a noi. Paura che il tutto ci sfuggirà di mano, un giorno (Basta pensare ai film di fantascienza come trasposizione cinematografica del nostro inconscio e delle sue paure). Traspare un senso di leggerezza in <i>The Artist</i>, partendo dalla scelta di un bianco e nero estremamente pulito, passando per una colonna sonora apparentemente priva di pathos: queste scelte registiche ci ricordano la natura cinematografica primordiale, il suo essere, sopra ogni cosa, Entertainment. Lo sapevano i fratelli Lumière, lo sa George Valentino, lo sa il regista <a href="http://cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=210256"><b>Michel Hazanavicius</b></a>, lo sapevano i protagonisti di <i>Singing in the rain</i>, nei loro simpatici e goffi tentativi di passare al parlato. Il cinema delle origini arriva nel presente, e il cerchio si chiude.</span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:100%;"> <span class="Apple-style-span" style=" ;font-family:Arial;"> </span></span></p> <!--EndFragment-->Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com16tag:blogger.com,1999:blog-4041938156076361976.post-25858121284148957312011-11-08T12:47:00.023+01:002011-11-21T14:23:23.964+01:00EVEN THE RAIN E LA SEMIOTICA DEI POPOLI<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJN5xITxS2z65V9Ud9h2SpB-nsoht_SmxszgPzX9fxKgI-iNIBjvMbi90J9cgcaafWaJepiSiN5OIB4mw1SbMdQ89DPqSTtpkrj5DRor3ofg70GjFW0oQUy3erpoYFdcnQ46c6GOkTSoDJ/s1600/Even_the_Rain_Carlos_Aduviri-as-Hatuey.jpg" onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}"><img style="display:block; margin:0px auto 10px; text-align:center;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 180px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJN5xITxS2z65V9Ud9h2SpB-nsoht_SmxszgPzX9fxKgI-iNIBjvMbi90J9cgcaafWaJepiSiN5OIB4mw1SbMdQ89DPqSTtpkrj5DRor3ofg70GjFW0oQUy3erpoYFdcnQ46c6GOkTSoDJ/s320/Even_the_Rain_Carlos_Aduviri-as-Hatuey.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5674854672792300722" /></a><p style="margin: 0.0px 0.0px 21.0px 0.0px; text-align: justify; font: 16.0px Arial"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;"> <!--[if gte mso 9]><xml> <o:documentproperties> <o:revision>0</o:Revision> <o:totaltime>0</o:TotalTime> <o:pages>1</o:Pages> <o:words>666</o:Words> <o:characters>3797</o:Characters> <o:company>Cineuropa</o:Company> <o:lines>31</o:Lines> <o:paragraphs>8</o:Paragraphs> <o:characterswithspaces>4455</o:CharactersWithSpaces> <o:version>14.0</o:Version> </o:DocumentProperties> <o:officedocumentsettings> <o:allowpng/> </o:OfficeDocumentSettings> </xml><![endif]--> <!--[if gte mso 9]><xml> <w:worddocument> 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style="font-family:arial;font-size:100%;">Una troupe cinematografica va a Cochabamba, in Bolivia, per girare un film sull’arrivo di Cristoforo Colombo nella Nuova Terra. Contemporaneamente alle riprese, in città sorge il malcontento per l’imminente privatizzazione dell’acqua. La <i>mise en abîme</i>, la Storia nella Storia o film nel film che dir si voglia, ci porta verso un’identità realtà-finzione: i boliviani recitano in un film che parla dell’antica colonizzazione, e contemporaneamente, una nuova guerra li sta soggiogando. Il personaggio e la persona finiscono per subire la medesima violenza.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">C’è un momento, nel film del regista <a href="http://cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=156224"><span style="text-decoration:none;text-underline:nonecolor:#0204F5;">Iciar Bollaìn</span></a>, che trascende l’intreccio, portandolo a un livello superiore. Il regista Sebastiàn spiega la scena successiva: i cani feroci, sguinzagliati dai colonizzatori, incombono. Per salvare i propri figli, le madri li adagiano sul letto del fiume, nella speranza che la corrente li porti lontano. Le donne non vogliono girare la scena, i bambini urlano a pieni polmoni. Sebastiàn, per esorcizzare la paura, spiega che non ci sarà alcun pericolo perché la scena sarà tagliata e i bambini sostituiti con bambole; ma il rifiuto non é dettato dalla paura. Esse rifiutano di girare la scena, perché non possono immaginare di compiere un tale gesto. Sebastiàn prega di farlo, poiché, in sostanza, il film deve continuare: ma il traduttore riferisce che, per i boliviani, ci sono cose più importanti di un film.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Il linguaggio è convenzione: ci sono concetti che non possono essere tradotti o spiegati, che non possono - e a volte non vogliono - essere compresi. Questo dettaglio non trascurabile è probabilmente alla base della maggior parte dei conflitti di oggi e di ieri. In ogni luogo e in ogni epoca, il rispetto per l’altro comincia nel mondo della condivisione, ma termina in quello dell’ignoto e della diversità, di ciò che terrorizza, ma allo stesso tempo, affascina.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">In semiotica, Peirce parlava del passaggio per l’uomo dalla condizione di ‘dubbio’ a quella di ‘credenza’. Il nostro rapporto con il mondo è segnato da una perpetua formulazione d’ipotesi, per superare la condizione d’incertezza nella quale viviamo. Ci adagiamo a una credenza, a un modello mentale, a uno stereotipo o a una concezione culturale, per far riposare la mente. La comunicazione è sempre legata a un’interpretazione, e ogni interpretazione, ci dice Umberto Eco, ha necessariamente dei limiti. Il significato che diamo alle cose dipende dalla nostra conoscenza ed esperienza del mondo. Posti di fronte a una nuova realtà, creiamo un contenuto costituito dall’insieme delle differenti interpretazioni e concezioni. Spesso tendiamo a dimenticare come soltanto un gesto possa essere offensivo per il membro della differente cultura, o come certi sentimenti di appartenenza siano del tutto estranei tra un popolo e l’altro. Un ragazzo boliviano, attore del film di Sebastiàn e manifestante agguerrito per il suo diritto all’acqua, a un certo punto ammette la sua incapacità di comprendere ciò che accade: ‘agua es vida, no lo entiendo’.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Il governo boliviano con la privatizzazione dell’acqua vuole ‘attualizzare’ il Paese, portarlo in un mondo globalizzato, per non lasciare i propri abitanti ‘nell’età della pietra’. E’ ciò che la nostra civiltà ha fatto nel corso dei secoli: imporre la propria visione come univoca, superiore, evoluta. Abbiamo diffuso la nostra fede, la nostra educazione, la nostra economia nel mondo, senza domandarci se potesse essere compresa e plasmarsi altrove. Ci sono mondi, ci dice il film, con linguaggi differenti, vicini alla natura, intuitivi e simbolici. Lo dimostra il piccolo regalo fatto dal padre di Belén a Costa, prima della partenza: un contenitore riempito della loro, preziosissima, acqua, da conservare come amuleto. Perché ‘agua es vida’.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText" style="text-align: justify;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Forse ci sono davvero cose che vanno al di là di un film, del <i>leit</i> <i>motiv</i> “Show must go on” che descrive la vita di Sebastiàn e di Costa – perché, si difendono, ‘la vita cambia, mentre questo film rimarrà per sempre’. Forse ci sono cose che non possono essere dette, spiegate, ma solo percepite. Forse ci sono cose che i soldi non possono comprare. Le parole scivolano con facilità da una lingua all’altra, ma spesso il concetto profondo, unico e personale, cade in un buco nero: perso nella traduzione.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoBodyText"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">L’ultima parola del film, è pronunciata da Costa: Yaku. In boliviano, significa acqua.<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoListCxSpFirst"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Acqua<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoListCxSpMiddle"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Agua<o:p></o:p></span></span></p> <p class="MsoListCxSpMiddle"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Water<o:p></o:p></span></span></p><p class="MsoListCxSpMiddle"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Wasser</span></span></p><p class="MsoListCxSpMiddle"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;">Yaku.</span></span></p> <p class="MsoListCxSpMiddle"><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;"><br /></span></p> <p class="MsoNormal"><span lang="EN-GB"><o:p><span class="Apple-style-span" style="font-family:arial;font-size:100%;"> </span></o:p></span></p> <!--EndFragment--><p></p><p></p><span class="Apple-style-span" style="font-size:100%;"> <p class="MsoNormal" style=" text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US;font-family:Arial;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US;font-family:Arial;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language:EN-US;font-family:Arial;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" margin-bottom: 16pt; text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="mso-ansi-language: EN-US;font-family:Arial;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" margin-bottom: 16pt; text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="font-family:Georgia; mso-bidi-mso-ansi-language:EN-USfont-family:Georgia;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" margin-bottom: 16pt; text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="font-family:Georgia; mso-bidi-mso-ansi-language:EN-USfont-family:Georgia;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" margin-bottom: 16pt; text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="font-family:Georgia; mso-bidi-mso-ansi-language:EN-USfont-family:Georgia;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" margin-bottom: 16pt; text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="EN-US" style="font-family:Georgia; mso-bidi-mso-ansi-language:EN-USfont-family:Georgia;"><o:p> </o:p></span></p> <p class="MsoNormal" style=" text-align: justify; line-height: 150%; font-family:arial;"><span lang="ES-TRAD"><o:p> </o:p></span></p> <!--EndFragment--></span><p></p> <!--EndFragment--><p></p> <!--EndFragment-->Silvia Bigihttp://www.blogger.com/profile/15855424996877814505noreply@blogger.com37