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24 January, 2012

THE AMERICAN DREAM

Nel cinema é sufficiente un'inquadratura per invertire il senso e mostrarci una versione inedita del nostro mondo. Magari fosse così semplice anche nella vita: "uscire" dalla scena, vedersi da fuori, come spettatori privi di giudizio. Brandon cena con una donna nell’ennesimo ristorante chic di Manhattan: la musica, l'atmosfera, il menù, sono gli stessi di sempre. La conversazione é forse poco brillante, ma nel complesso niente sembra essere fuori posto, perché un'utopica New York avvolge tutto rassicurandoci e ricordandoci che quello é il sogno americano: e il sogno americano, si sa, é il sogno di tutti noi. All'improvviso il punto di vista cambia. Siamo fuori dal ristorante, in strada, e osserviamo ogni cosa da una nuova prospettiva. Quel che vediamo ora, tra luci riflesse e rumore di clacson, é una città assordante, caotica, opprimente, che concede alle vite il loro breve, brevissimo, momento di gloria, prima di fagocitarle e lasciarle nuovamente senza voce. Sono queste sottili allusioni, questi delicati e sapienti tocchi, che fanno capire il perché di un film come Shame. Steve McQueen non ostenta. Lascia solo piccole tracce, sapientemente nascoste allo spettatore disinteressato, per condurci fuori dal sentiero battuto e raccontarci qualcosa di più su quel luogo-mondo che é la New York cinematografica.


Si dice spesso che andando a New York si abbia l'impressione di vivere un dejà-vu. Ogni strada, ogni angolo, appare inedito e al contempo familiare. Grazie al cinema l'abbiamo percorsa di notte e di giorno sui taxi e camminando lungo i marciapiedi. I nostri occhi si sono nutriti della celebre skyline, che cambiava con la luce, le stagioni e gli anni. New York grazie al cinema é diventata un non-luogo di transito tra il reale e l'immaginario collettivo, cambiando intimamente tutti noi, plasmando una nuova civiltà. Georg Simmel scrive che l'epoca moderna ha come simbolo il denaro e come luogo la Grande Città. Si tratta di un'epoca caratterizzata dall'impersonalità dei valori umani, dal distacco, dalla prevaricazione dell'intelletto sulle emozioni. L'attività neuronale dell'uomo metropolitano é molto veloce, accellerata in vista del bombardamento di stimoli quotidiani cui é sottoposto, per permettergli repentini e continui adattamenti interni. I suoi bisogni reali sono là sotto, nascosti chissà dove. L'uomo metropolitano, secondo Simmel, é mobile, fluido, plasmabile: si trova a oscillare eternamente tra il bisogno di socializzazione e di personalizzazione, pena la solitudine o l'omologazione. Siamo su una giostra impazzita da cui é impossibile - o difficile - scendere.


Non c'é da sorprendersi se proprio oggi soffriamo dei più svariati disturbi: nevrosi, ansia, depressione, insonnia, ossessività, compulsività. Il cinema, la televisione e più in generale la cultura popolare sembrano avere plasmato i nostri gusti e i nostri ritmi, ci hanno detto cosa mangiare, come passare il nostro tempo libero, cosa sia la bello e cosa no, e soprattutto ha ben delineato cosa ci rende diversi e disprezzabili. Abbiamo imparato a reprimere i nostri veri bisogni, il nostro vero sentire. Il sogno del self-made-man americano, ancora fortemente impresso nell'inconscio collettivo della società occidentale, é incarnato oggi nel quarantenne professionista newyorchese, distaccato e irraggiungibile, proprietario di una bella casa, con abiti costosi, un lavoro sicuro e redditizio, e che, libero da rapporti troppo vincolanti, può avere tutte le donne che vuole, quando vuole. Ma la verità é che nessuno vorrebbe essere come Brandon. Nessuno invidia un uomo solo, nel suo attico, che mangia cibo spazzatura e guarda film porno. Nessuno aspira ad andare a letto con centinaia di belle donne, se poi non é fisicamente in grado di farlo con la persona per cui prova qualcosa. Brandon corre di notte per le strade di Manhattan, una lunghissima carrellata lo segue senza tregua, la città é ad ogni angolo identica e indifferente. La sorella Sissy, patologicamente attratta da uomini sbagliati e con tendenze suicide, fa meno pena di lui: forse perché, a differenza sua, ammette di essere imperfetta. Brandon soffre di sex addiction, una vera e propria patologia paragonabile a qualsiasi tossicodipendenza, ma visto dall'esterno sembra l'uomo che tutti vorrebbero essere. Quanti ce ne sono come lui?


Ancora Simmel ci dice che oggi, grazie agli automatismi, non dobbiamo più preoccuparci di sopravvivere, ma piuttosto di realizzare le nostre possibilità inespresse. Troviamo l'essenziale nell'inessenziale: come i sogni, le opere d'arte, i film. Varchiamo la parete dello specchio che separa il reale dall'immaginario, giungendo in un mondo senza spessore che ci sembra più importante di quello in cui viviamo: questa illusione ci nutre, ci apre finestre su mondi inediti che appaiono ai nostri occhi un'esistenza più degna di essere vissuta. Le nostre vite sembrano così piccole, insignificanti. Shame ci fa pensare: é questo il sogno americano? Lasciare che il cinema ci schiacci o ci restituisca grande dignità, questo é il problema.

15 January, 2012

PINA 3D: il corpo come tramite

I corpi sono posseduti, estatici. Qualcosa li attraversa per arrivare a noi. Sembrano entità a sé, messaggeri di una visionaria Pina Bausch che entrano in scena, danzano portando il loro messaggio e ne escono svuotati, esaurendosi in quell'unico atto.


Gli artisti del Tanztheater rappresentano un fortunato ibrido di danzatori e attori, dove il corpo è veicolo di un messaggio totale e autonomo. Ci permettono di vivere un viaggio interiore attraverso le nevrosi e le psicosi umane, un work in progress che vediamo svilupparsi davanti ai nostri occhi. In uno stato di estasi (estasi appunto come annullamento del sé) si fanno tramite di un disegno superiore, il disegno della pittrice di corpi Pina Bausch. I suoi danzatori sono un prolungamento di se stessa, tanti piccoli frammenti autoreferenziali e al tempo stesso autonomi. “Pina was hidden in each one of our, and we were a part of her”.


Un mondo di suggestioni radicali ed essenziali, fatto di visioni post-contemporanee, che Wim Wenders rende, se possibile, ancor più magiche: rimane un senso di pienezza e di bellezza, di ebrezza da stimoli visivi e concettuali. I movimenti di macchina e la fotografia valorizzano la teatralità del gesto e del volto, permettendo che l'obiettivo sia i nostri occhi e che essi incrocino quelli dei danzatori, alcuni dei quali ci trapassano indelebili.


La danza è la prima forma di espressione artistica dell'essere umano, perché ha come strumento il corpo, è specchio della propria realtà e dei relativi comportamenti umani. Dal momento in cui qualcuno decise che mente e corpo fossero concetti distinti e separati si è assistito a una dissincronizzazione della nostra gestualità. Ce lo dice Pina attraverso il suo Cafe Muller, dove un uomo in giacca e cravatta costringe una coppia, in preda alla passione più spontanea, ad una catena di gesti meccanici e forzati, gettandoli nella frustrazione e nella disperazione. È lo strazio non di possedere, ma di essere sopra ogni cosa corpi, dell'avere una nostra propria naturalezza che il mondo tenta perennemente di mutare, plasmare, scardinare. Quella danza è lo strazio dei sentimenti che questi corpi vivono, fluiscono, incanalano. Il livello di possessione e di estasi di quei corpi è altissimo: evidente, osservandoli, il perché la chiesa cristiana volle condannare la danza. Il corpo riacquista dignità, si riappropria della sua originaria saggezza, ma con in più il dolore della consapevolezza: questo dolore è però inaspettatamente un dono di incredibile forza. Pina diceva ai suoi artisti: “your fragility is also your strenght” (la vostra fragilità è anche la vostra forza).


Wenders si mette al servizio di questo monologo onirico e visionario, in questo susseguirsi interminabile di mondi paralleli raccontati come flusso di coscienza - senza filtri - attraverso il linguaggio primordiale dei corpi. Ci sentiamo disorientati: il mondo di Pina ci assorbe così in profondità che ci perdiamo al suo interno. La Berlino che fa da sfondo è talmente integrata e assorbita dalla performance che ne è una naturale scenografia: persino il reale sembra piegarsi al suo cospetto. Viene da chiedersi, a questo punto, se l'effimero sia la traiettoria invisibile dei corpi o piuttosto il mondo come noi lo conosciamo. E se proprio il vostro livello di empatia e di “immersione” nel magico mondo non fosse ancora al suo apice, Wenders vi prende per mano, ve lo fa raggiungere attraverso le immagini in 3D.


La Bausch si raccontava attraverso un linguaggio fortemente allegorico, ad esempio la sedia ricorre come espediente nell'annullamento della gravità e nella costruzione di castelli effimeri e fragili che il corpo umano è costretto a sfidare: il suo lavoro è l'incontro fra il metodo catartico di Stanislawski e l'estrosità poliedrica, magmatica e sconfinata della danza contemporanea. Dance! Dance!” diceva Pina “otherwise we are lost” e aveva ragione. In un mondo di spersonalizzazione, omologazione, razionalizzazione, come quello in cui viviamo, in cui puniamo il nostro corpo seppur lui ci ripaga ogni giorno con la vita, il semplice gesto di danzare, come ricongiungimento tra il nostro corpo e le nostre emozioni, è l'atto di più forte affermazione individuale che possiamo compiere.