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21 February, 2012

ANOTHER EARTH, ANOTHER ME

"Ingenuo, che stai a cercar di afferrare un'immagine fugace? Quello che brami non esiste; quello che ami, se ti volti, lo fai svanire".

Ovidio, Le Metamorfosi

Il fatto che sia uscito parallelamente al pluripremiato Melancholia, potrebbe trarre in inganno: la verità è che Another Earth di Mike Cahill ha davvero poco da spartire con il film di Lars Von Trier. L'espediente cosmico (anche se non a caso se ne parla tanto nel 2012) è solo pretesto per una sottile riflessione filosofica, sulle tracce di un pianeta specchio che racconta la duplicità nell'individuo.

Quante volte ci siamo chiesti se ci fosse un'altro noi, un'altra persona identica nello spazio e nel tempo e che magari si interrogasse allo stesso modo guardando lo spazio. Another Earth fonde questa eterna domanda esistenziale a uno scenario fantascientifico latente: non ritroviamo le atmosfere apocalittiche di Melancholia, ma piuttosto un clima introspettivo dove i silenzi e i dolori delle persone che abitano il pianeta "TERRA1" procedono noncuranti e si esprimono quotidianamente tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo.

Rhoda, una brillante studentessa, è alla guida di ritorno da una festa quando alla radio si parla di un nuovo pianeta visibile ad occhio nudo. Si affaccia al finestrino ammaliata da quella luce lontana, scontrandosi con un auto. Il pianeta comparso all'interno del sistema solare è un pianeta specchio alla terra, chiamato senza troppi indugi TERRA2, per via dei suoi mari, terre e persone apparentemente identiche a noi. Nulla di plateale ci attende: soltanto pensieri che si insinuano tra i silenzi di una giovane donna. L'esistenza su Terra2 può forse essere una seconda occasione? Un altro essere identico a noi. Un altro noi, che vive la nostra stessa vita. L'ombra, il doppio. Guardare il cielo e vederci riflessi lassù.

Fin dall'antichità si è parlato del doppio nell'essere umano: gli egizi con Ka esprimevano il concetto di doppio come proiezione vivente della figura umana. Il geroglifico utilizzato per descriverlo era caratterizzato da due braccia identiche e riflesse. Ovidio nelle Metamorfosi ci racconta del giovane Ermafrodito, figlio di Hérmes e Afrodite attanagliato dalla ninfa Salmacìde la quale riesce a diventare con lui un unico essere grazie ad una preghiera fatta agli déi . Ma più di tutti Narciso, che si specchia nelle acque e si perde nel suo riflesso - quindi in se stesso - per l'eternità: "Quel che bramo l'ho in me: ricchezza che equivale a povertà. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei che la cosa amata fosse più distante". Che sia stato un miraggio, un inconscio e profondo desiderio umano quello di vedersi fuori da sé, non ci è dato saperlo. Il cinema ha tuttavia il potere di rendere verosimili paure e desideri, di farci vivere, come in TERRA2, una seconda vita.

Il doppio ci affascina e allo stesso tempo ci turba. Niente ci spaventa più di ciò che è simile, troppo simile; per questo il film Mike Cahill è una perfetta trasposizione dell'un-heimlich freudiano, il perturbante, la potente sensazione sprigionata quando estraneità e familiarità si uniscono. Cosa c'è di più perturbante di una copia esatta di tutto ciò che conosciamo, compresi noi stessi, identica eppure altra? Come la famosa fotografia che ritrae le bambine gemelle di Diane Arbus, Another Earth ci pone in uno stato di totale immobilismo: ci affascina, ma ci rende impotenti, inermi. Se poi pensiamo al fatto che la posizione di spettatore cinematografico è caratterizzata proprio dal più totale immobilismo, da una partecipazione profondamente passiva allo spettacolo che gli si pone davanti, e - come se non bastasse - vede immagini che "riflettono" un mondo che in qualche luogo è stato reale, non se ne esce vivi. E questo rapido spunto di riflessione forse, può aiutare meglio a capire il senso di un film come Inland Empire.

Altro che panico da fine del mondo. Il vero giorno del giudizio sarà quello in cui ci troveremo, faccia a faccia, con il nostro io.

13 February, 2012

TOMBOY: IL GIOCO, L'ARTE, LA VITA

Il bello del cinema è che può percorrere un universo sconfinato di possibilità. Un film può essere tutto ciò che vuole, mantenendone lo statuto e la legittimità: il kolossal farcito con milioni di dollari di effetti speciali, o una piccola produzione che ricerchi la sua identità in altro, lontano dalle mirabolanti attrattive del made in USA. Credo sia un pò come l'abitudine a mangiare cibi molto salati. L'assuefazione al sale ci rende impossibile percepire il sapore di quelli delicati o sconditi, ma se solo ci riabituiamo al vero gusto delle cose, quello più semplice, genuino e reale, allora non riusciremo più a tornare indietro. Forse sì, dovremmo “disintossicarci” ogni tanto dal cinema plateale e spettacolare (almeno in parte) per gustarci la poesia e la sensibilità di film come Tomboy. Nessun accadimento speciale, nessun cataclisma, nessuna guerra, nessun amore folle e smisurato. Solo la semplice quotidianità di una bambina che, in crisi di identità sessuale, vorrebbe essere un maschio per giocare a calcio e piacere alla bella Lisa. Una storia che si sarebbe potuta rendere densa di pathos, creando il classico alone di vergogna, disprezzo, paura o perfino suspence. Invece la regista Céline Sciamma ci mette di fronte allo specchio al fianco di Laure: lei si toglie la maglietta e guarda quel corpo ancora privo di connotazioni sessuali che le permette di giocare ad essere altro. Noi siamo lì, e non ce ne andiamo.


Il vero quesito di Tomboy non è se Laure sia gay oppure no. Si tratta piuttosto di un momento, di una tranche de vie nella scoperta di se stessi e del mondo esterno. Infondo chi può definirsi una persona completa a dieci anni? Perché ci si aspetta che l'identità sessuale sia qualcosa di determinato sin dalla tenera età, come se fosse niente di più di un carattere ereditario? A volte, quando l'istinto entra in conflitto con le pressioni sociali, è necessario scegliere. In questo caso, la futura connotazione sessuale non ha davvero alcuna importanza. Il diritto ad uscire da se stessi, il diritto a sperimentarsi, a giocare con la propria identità, è qualcosa di negato nella quotidianità dalla nostra cultura, eppure se riflettiamo ci rendiamo conto che da secoli è sublimata nel teatro (pensiamo alla maschera, al travestimento, al recitare un ruolo) e ovviamente anche nel cinema stesso. Il termine “Persona” deriva dall'etrusco Fersu, cioè maschera. Vita e scena non sono poi così distanti in conclusione. In effetti cosa caratterizza la nostra identità, il nostro essere persona? Ciò che rimane immutabile, in un vortice continuo di cambiamenti: la continuità è tutto ciò cui possiamo aggrapparci per definire ciò che siamo. Il gioco imita la vita e i suoi modelli, quei modelli che la società si aspetta vengano presto fatti propri dall'individuo. Il gioco, l'arte e il teatro sono la stessa cosa: sono un tentativo di affermazione della vita e della propria, personalissima, versione di essa. E come avviene nel sogno, possiamo sfruttarli per sperimentare le vite degli altri, le infinite possibilità che ci si presentano davanti, permettendoci di far confluire le nostre pulsioni inespresse là dove sono legittime e accettate.


A volte, tuttavia, avviene un cortocircuito. Il bello di Tomboy, è l'essere chiamati a schierarsi dalla parte dei più piccoli, come raramente nel grande cinema (eccezioni che ritroviamo ne I 400 Colpi di Truffaut, ancor prima in Zero in condotta di Jean Vigo, e nel più recente La guerra dei fiori rossi di Zhang Yuan) . Qualunque sia stata la nostra infanzia, riusciamo a capire Laure, empaticamente, a sentirla. E alla fine? Cosa ci resterà di questo film? Forse non un grande appagamento, nessun messaggio profondo, nessuna scossa emotiva: solo la scia di qualcosa che è stato, la traccia di un'estate vissuta, o sognata. 82 minuti che ci hanno permesso di abitare la vita di qualcun altro, e forse, di essere abitati a nostra volta. Poco importa di quel che ne sarà dopo.


Ebbene sì, il cinema può essere anche questo.