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01 April, 2012

TERRAFERMA E IL BLU PROFONDO

Ricorda una poesia di Giorgio Caproni il film Terraferma di Emanuele Crialese. Poesia visiva, dove ogni inquadratura è un dipinto dai tratti essenziali e genuini, come la terra che rappresenta.

Ogni personaggio è delicato stereotipo, così ben interpretato da far dimenticare di assistere alla visione di un film. In quest'isola siciliana, così piccola da non comparire nemmeno sull'atlante, tutto sembra immutato, tutto sembra più autentico. La vita è ciclica secondo le leggi del mare e dei viaggiatori (uno choc il passaggio all'estate con il tanto atteso arrivo dei traghetti colmi di turisti), e sembra non avere nulla a che fare con il mondo che noi tutti conosciamo. Ce ne accorgiamo vedendo accostati i giovani turisti al coetaneo Filippo, che desiste ai richiami di un mondo globalizzato e globalizzante, e sogna di vivere l'intera vita sull'isola continuando il lavoro dei padri. Giulietta (Donatella Finocchiaro) è una donna che incarna quella leggendaria bellezza siciliana, eternamente malinconica, nutrita da sacrifici e devozione; ma è anche una donna libera desiderosa di ribaltare il proprio destino: sogna di vivere a Trapani, di cambiare vita e trovare un nuovo compagno.

Un mondo lontano anni luce dalla nostra caotica routine: lontano anche dalla disperazione dei migranti, giunti sull'isola tra paure e speranze. Gli isolani di Crialese sono traghettatori di due mondi. Sì, ne esistono due, ci dice il regista italo-americano. Siamo in una sorta di purgatorio nemmeno troppo figurato, che divide il nord e il sud (del pianeta), la legge e l'istinto, la ragione e i sentimenti. La scelta morale è il fulcro, ma sapientemente celata dalla perpetua ricerca estetica e dalla sottile indagine psicologica, giocata nella dialettica degli opposti.

Dopo il precedente Nuovomondo non si può che domandarsi se le similitudini siano cifre stilistiche o qualcosa di più: Sicilia, mare e oceani sconfinati, arrivi e partenze, disperazione, ricerca di un mondo migliore. A inizio novecento eravamo noi a fuggire nel Nuovo Mondo, Ellis Island era porto di anime, molto più di qualsiasi isola siciliana di oggi. Ieri eravamo noi, oggi loro. Il toccante incontro fra Giulietta e la donna clandestina, ricorda quello che troppo spesso dimentichiamo: potremmo essere noi. Chi accusa il film di avere romanzato un problema di un'attualità sconcertante eccede in cinismo. La morale è qualcosa di cui l'uomo si nutre dall'alba dei tempi, proprio perché nel caos degli eventi, e questo vale oggi più che mai, si ha bisogno di ritrovare i significati profondi e i valori universali. Se poi la si adorna di bagni di latte candido o di blu profondo, si compie fino in fondo la vera magia del cinema.





14 March, 2012

ATTENBERG: IL FAVOLOSO MONDO DI MARINA

Dio è il Silenzio, Dio è l'Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini. Sartre

Attenberg è una poesia visiva, il suo mondo ovattato parla di individualità inespresse, di visioni che lasciano segni indelebili e profondi, perché arrivano a noi per vie differenti dalle parole. La luce cupa e radente della fotografia di Thimios Bakatakis, ancor prima che le immagini, influenza la nostra percezione e la nostra emotività. Marina è una outsider, la sua vita è un perpetuo fuori sincrono. La realtà oggettiva la destabilizza, si interseca alla sua percezione del mondo, creando confusione. Lei vive la realtà, ma la realtà non vive in lei. E' ribellione interna: il suo corpo e la sua mente rigettano l'ordine delle cose, ma in particolare ciò che viene rigettato è la concezione sociale del corpo: quell'imposizione ad una risposta immediata e all'unisono di corpo e mente al sesso, all'attrazione, all'altro. Ci prova continuamente, si esercita al bacio con la migliore amica Bella e studia il suo corpo clinicamente, scopre il sesso, ma ugualmente ne è fuori. E' spettatrice di se stessa.


Mai si sarebbe detto prima del film di Athina Rachel Tsangari che un mondo interiore autistico potesse essere tanto sognante e poetico. Le due amiche canticchiano Toutes les garcons et le filles de mon age mentre passeggiano verso di noi in un'infinita carrellata, mentre la vita intorno procede noncurante, Marina e Bella affermano e ribadiscono il loro essere fuori tempo rispetto al mondo circostante: le freaks di Attenberg sarebbero state amate da Diane Arbus. Marina non risponde agli schemi imposti, semplicemente assimila i comportamenti altrui nella forma, senza assorbirne la sostanza o farli propri. L'interesse verso gli altri è più di carattere antropologico, come dimostrano i documentari di David Attenborough sempre presenti - Attenberg appunto, perché persino le parole sono plasmate e filtrate dai personaggi. La sua osservazione meccanicistica degli istinti animali conferma l'incapacità della protagonista di comprendere gli esseri umani: nessuna attrazione per l'altro, solo un amore profondo e sconfinato per il padre.


La com-passione, nel senso originario del termine, il sentire empaticamente l'altro, è il tema più interessante di Attenberg: la poesia del film non nasce dalla drammaticità, ma dalla goffaggine e dall'ironia che irradiano i personaggi, delicati e sottili, e da una sensibilità disarmante nei confronti della diversità. La recitazione straniante dell'attrice Ariane Labed (Coppa Volpi a Venezia) e gli inusuali intermezzi grotteschi alimentano un mondo che non ci appartiene, ma che per un istante sfioriamo.


"L'altro è indispensabile alla mia esistenza, così come alla conoscenza che ho di me" diceva Sartre. Per esistere abbiamo bisogno degli altri, della realtà del mondo in cui viviamo: ma, infondo, siamo noi che proiettiamo noi stessi sul mondo esterno. E' questo che Athina Rachel Tsangari tenta di dirci, e per quanto disorientante e faticoso, il favoloso mondo di Marina persiste nella mente, come un profumo dalle note profonde, che ricordiamo nel tempo senza ragione.

01 March, 2012

CHICO y RITA, FIABA CUBANA

Anche l'animazione ha una sua storia, parallela a quella del cinema; qualche volta i due si sono presi per mano. La tecnica del Rotoscope ha origini lontane: non si tratta di disegni e idee nate dalla penna degli autori, ma di persone, attori e luoghi realmente esistiti, resi solo successivamente immagini animate. C'è un incredibile confusione sul ruolo dell'animazione nel cinema contemporaneo: i puristi rigettano tale tecnica, mentre lo spettatore medio rifiuta persino di prendere in considerazione un qualsiasi film d'animazione con serietà: la legittimazione a statuto artistico è ben lontana.


Possiamo concordare sul fatto che il rotoscope sia qualcosa di diverso dall'animazione pura: questo perché le immagini prodotte hanno un legame fotografico - fisico - con la realtà. Peirce distingueva i segni in tre categorie: gli indici, le icone e i simboli. Le icone hanno con l'oggetto un legame di somiglianza, i simboli rimandano al loro referente come legge arbitraria, convenzionale, mentre gli indici sono segni in connessione con l'oggetto, segni fisici, perché in congiunzione "reale" con le cose. Non necessitano di astrazione mentale: sono traccia di ciò che è passato, che è stato, che è esistito.


Perché sprecare tempo nel compiere un tale processo di astrazione, dal dato fisico di una realtà in divenire (la pellicola) alle immagini animate? A che scopo? Fin quando la linea di demarcazione tra cinema di animazione e di finzione era chiara (ma lo è davvero stata?), tutto andava bene: non appena si è cominciato a sperimentare, unire, trasformare, qualcosa è cambiato. Rigettiamo tutto ciò che non sia perfetta mimesi del mondo in cui viviamo: ma la verità è che l'immaginazione è cibo per la mente, ad ogni età: la fantasia é una parte importantissima per lo sviluppo della nostra personalità, per la realizzazione di ciò che siamo e ciò cui aspiriamo: "Nulla è più vero di ciò che si desidera", sostiene lo psicologo Bruno Bettelheim.


Chico & Rita, di Fernando Trueba, non è una fiaba per bambini: è una storia d'amore, che percorre luoghi e stagioni di vite vissute, ma è anche la favola del sogno americano, quello che uomini e donne di tutto il mondo hanno desiderato per decadi. In effetti, è una fiaba per adulti: esprime il desiderio di realizzazione della carriera, dei sentimenti, della sensualità (pensiamo alla danza seducente di Rita nel bar della prima notte). L'animazione di Chico & Rita ci porta più vicini al reale e di conseguenza più vicini alla realizzazione di quelle possibilità: un pò come un film in techicolor, ci fa sognare, senza condurci troppo vicino al mondo sconfinato dell'immaginazione pura: un piede a terra e uno in aria.


Perché l'animazione in rotoscope? Perchè l'onirismo insito al processo di astrazione ci rende onnipotenti. Chico e Rita sono persone reali travestite da disegni animati, e come tali possono osare di più. Sono in nostri alter-ego e per questo si spingono dove noi non possiamo - o vogliamo - arrivare. La fiaba parla in genere di situazioni ordinarie e ci concede un alto livello di immersione. Ciò che distingue la fiaba dal sogno, è che il sogno esprime paure e pressioni quotidiane senza offrirci una soluzione: la fiaba ci mostra invece che nonostante sia necessaria una lotta, una soluzione esiste sempre. Penso ai recenti film di Richard Linklater, A scanner darkly e Waking life, dove l'onirico prende il sopravvento e i piani della realtà, del sogno, dell'animazione stessa tendono a collidere. Qui si giocava a varcare i confini, ma in questa intricata trama di storie, sogni e fiabe, è chiaro che mentre l'animazione è in cerca di un suo statuto, possiamo approfittare e assorbirne le sperimentazioni e i tentativi. Il cinema animato è un mondo di cui, in fondo, abbiamo bisogno. E per chi volesse intraprendere il sentiero, Chico y Rita è un ottimo punto di partenza.


21 February, 2012

ANOTHER EARTH, ANOTHER ME

"Ingenuo, che stai a cercar di afferrare un'immagine fugace? Quello che brami non esiste; quello che ami, se ti volti, lo fai svanire".

Ovidio, Le Metamorfosi

Il fatto che sia uscito parallelamente al pluripremiato Melancholia, potrebbe trarre in inganno: la verità è che Another Earth di Mike Cahill ha davvero poco da spartire con il film di Lars Von Trier. L'espediente cosmico (anche se non a caso se ne parla tanto nel 2012) è solo pretesto per una sottile riflessione filosofica, sulle tracce di un pianeta specchio che racconta la duplicità nell'individuo.

Quante volte ci siamo chiesti se ci fosse un'altro noi, un'altra persona identica nello spazio e nel tempo e che magari si interrogasse allo stesso modo guardando lo spazio. Another Earth fonde questa eterna domanda esistenziale a uno scenario fantascientifico latente: non ritroviamo le atmosfere apocalittiche di Melancholia, ma piuttosto un clima introspettivo dove i silenzi e i dolori delle persone che abitano il pianeta "TERRA1" procedono noncuranti e si esprimono quotidianamente tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo.

Rhoda, una brillante studentessa, è alla guida di ritorno da una festa quando alla radio si parla di un nuovo pianeta visibile ad occhio nudo. Si affaccia al finestrino ammaliata da quella luce lontana, scontrandosi con un auto. Il pianeta comparso all'interno del sistema solare è un pianeta specchio alla terra, chiamato senza troppi indugi TERRA2, per via dei suoi mari, terre e persone apparentemente identiche a noi. Nulla di plateale ci attende: soltanto pensieri che si insinuano tra i silenzi di una giovane donna. L'esistenza su Terra2 può forse essere una seconda occasione? Un altro essere identico a noi. Un altro noi, che vive la nostra stessa vita. L'ombra, il doppio. Guardare il cielo e vederci riflessi lassù.

Fin dall'antichità si è parlato del doppio nell'essere umano: gli egizi con Ka esprimevano il concetto di doppio come proiezione vivente della figura umana. Il geroglifico utilizzato per descriverlo era caratterizzato da due braccia identiche e riflesse. Ovidio nelle Metamorfosi ci racconta del giovane Ermafrodito, figlio di Hérmes e Afrodite attanagliato dalla ninfa Salmacìde la quale riesce a diventare con lui un unico essere grazie ad una preghiera fatta agli déi . Ma più di tutti Narciso, che si specchia nelle acque e si perde nel suo riflesso - quindi in se stesso - per l'eternità: "Quel che bramo l'ho in me: ricchezza che equivale a povertà. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei che la cosa amata fosse più distante". Che sia stato un miraggio, un inconscio e profondo desiderio umano quello di vedersi fuori da sé, non ci è dato saperlo. Il cinema ha tuttavia il potere di rendere verosimili paure e desideri, di farci vivere, come in TERRA2, una seconda vita.

Il doppio ci affascina e allo stesso tempo ci turba. Niente ci spaventa più di ciò che è simile, troppo simile; per questo il film Mike Cahill è una perfetta trasposizione dell'un-heimlich freudiano, il perturbante, la potente sensazione sprigionata quando estraneità e familiarità si uniscono. Cosa c'è di più perturbante di una copia esatta di tutto ciò che conosciamo, compresi noi stessi, identica eppure altra? Come la famosa fotografia che ritrae le bambine gemelle di Diane Arbus, Another Earth ci pone in uno stato di totale immobilismo: ci affascina, ma ci rende impotenti, inermi. Se poi pensiamo al fatto che la posizione di spettatore cinematografico è caratterizzata proprio dal più totale immobilismo, da una partecipazione profondamente passiva allo spettacolo che gli si pone davanti, e - come se non bastasse - vede immagini che "riflettono" un mondo che in qualche luogo è stato reale, non se ne esce vivi. E questo rapido spunto di riflessione forse, può aiutare meglio a capire il senso di un film come Inland Empire.

Altro che panico da fine del mondo. Il vero giorno del giudizio sarà quello in cui ci troveremo, faccia a faccia, con il nostro io.

13 February, 2012

TOMBOY: IL GIOCO, L'ARTE, LA VITA

Il bello del cinema è che può percorrere un universo sconfinato di possibilità. Un film può essere tutto ciò che vuole, mantenendone lo statuto e la legittimità: il kolossal farcito con milioni di dollari di effetti speciali, o una piccola produzione che ricerchi la sua identità in altro, lontano dalle mirabolanti attrattive del made in USA. Credo sia un pò come l'abitudine a mangiare cibi molto salati. L'assuefazione al sale ci rende impossibile percepire il sapore di quelli delicati o sconditi, ma se solo ci riabituiamo al vero gusto delle cose, quello più semplice, genuino e reale, allora non riusciremo più a tornare indietro. Forse sì, dovremmo “disintossicarci” ogni tanto dal cinema plateale e spettacolare (almeno in parte) per gustarci la poesia e la sensibilità di film come Tomboy. Nessun accadimento speciale, nessun cataclisma, nessuna guerra, nessun amore folle e smisurato. Solo la semplice quotidianità di una bambina che, in crisi di identità sessuale, vorrebbe essere un maschio per giocare a calcio e piacere alla bella Lisa. Una storia che si sarebbe potuta rendere densa di pathos, creando il classico alone di vergogna, disprezzo, paura o perfino suspence. Invece la regista Céline Sciamma ci mette di fronte allo specchio al fianco di Laure: lei si toglie la maglietta e guarda quel corpo ancora privo di connotazioni sessuali che le permette di giocare ad essere altro. Noi siamo lì, e non ce ne andiamo.


Il vero quesito di Tomboy non è se Laure sia gay oppure no. Si tratta piuttosto di un momento, di una tranche de vie nella scoperta di se stessi e del mondo esterno. Infondo chi può definirsi una persona completa a dieci anni? Perché ci si aspetta che l'identità sessuale sia qualcosa di determinato sin dalla tenera età, come se fosse niente di più di un carattere ereditario? A volte, quando l'istinto entra in conflitto con le pressioni sociali, è necessario scegliere. In questo caso, la futura connotazione sessuale non ha davvero alcuna importanza. Il diritto ad uscire da se stessi, il diritto a sperimentarsi, a giocare con la propria identità, è qualcosa di negato nella quotidianità dalla nostra cultura, eppure se riflettiamo ci rendiamo conto che da secoli è sublimata nel teatro (pensiamo alla maschera, al travestimento, al recitare un ruolo) e ovviamente anche nel cinema stesso. Il termine “Persona” deriva dall'etrusco Fersu, cioè maschera. Vita e scena non sono poi così distanti in conclusione. In effetti cosa caratterizza la nostra identità, il nostro essere persona? Ciò che rimane immutabile, in un vortice continuo di cambiamenti: la continuità è tutto ciò cui possiamo aggrapparci per definire ciò che siamo. Il gioco imita la vita e i suoi modelli, quei modelli che la società si aspetta vengano presto fatti propri dall'individuo. Il gioco, l'arte e il teatro sono la stessa cosa: sono un tentativo di affermazione della vita e della propria, personalissima, versione di essa. E come avviene nel sogno, possiamo sfruttarli per sperimentare le vite degli altri, le infinite possibilità che ci si presentano davanti, permettendoci di far confluire le nostre pulsioni inespresse là dove sono legittime e accettate.


A volte, tuttavia, avviene un cortocircuito. Il bello di Tomboy, è l'essere chiamati a schierarsi dalla parte dei più piccoli, come raramente nel grande cinema (eccezioni che ritroviamo ne I 400 Colpi di Truffaut, ancor prima in Zero in condotta di Jean Vigo, e nel più recente La guerra dei fiori rossi di Zhang Yuan) . Qualunque sia stata la nostra infanzia, riusciamo a capire Laure, empaticamente, a sentirla. E alla fine? Cosa ci resterà di questo film? Forse non un grande appagamento, nessun messaggio profondo, nessuna scossa emotiva: solo la scia di qualcosa che è stato, la traccia di un'estate vissuta, o sognata. 82 minuti che ci hanno permesso di abitare la vita di qualcun altro, e forse, di essere abitati a nostra volta. Poco importa di quel che ne sarà dopo.


Ebbene sì, il cinema può essere anche questo.

24 January, 2012

THE AMERICAN DREAM

Nel cinema é sufficiente un'inquadratura per invertire il senso e mostrarci una versione inedita del nostro mondo. Magari fosse così semplice anche nella vita: "uscire" dalla scena, vedersi da fuori, come spettatori privi di giudizio. Brandon cena con una donna nell’ennesimo ristorante chic di Manhattan: la musica, l'atmosfera, il menù, sono gli stessi di sempre. La conversazione é forse poco brillante, ma nel complesso niente sembra essere fuori posto, perché un'utopica New York avvolge tutto rassicurandoci e ricordandoci che quello é il sogno americano: e il sogno americano, si sa, é il sogno di tutti noi. All'improvviso il punto di vista cambia. Siamo fuori dal ristorante, in strada, e osserviamo ogni cosa da una nuova prospettiva. Quel che vediamo ora, tra luci riflesse e rumore di clacson, é una città assordante, caotica, opprimente, che concede alle vite il loro breve, brevissimo, momento di gloria, prima di fagocitarle e lasciarle nuovamente senza voce. Sono queste sottili allusioni, questi delicati e sapienti tocchi, che fanno capire il perché di un film come Shame. Steve McQueen non ostenta. Lascia solo piccole tracce, sapientemente nascoste allo spettatore disinteressato, per condurci fuori dal sentiero battuto e raccontarci qualcosa di più su quel luogo-mondo che é la New York cinematografica.


Si dice spesso che andando a New York si abbia l'impressione di vivere un dejà-vu. Ogni strada, ogni angolo, appare inedito e al contempo familiare. Grazie al cinema l'abbiamo percorsa di notte e di giorno sui taxi e camminando lungo i marciapiedi. I nostri occhi si sono nutriti della celebre skyline, che cambiava con la luce, le stagioni e gli anni. New York grazie al cinema é diventata un non-luogo di transito tra il reale e l'immaginario collettivo, cambiando intimamente tutti noi, plasmando una nuova civiltà. Georg Simmel scrive che l'epoca moderna ha come simbolo il denaro e come luogo la Grande Città. Si tratta di un'epoca caratterizzata dall'impersonalità dei valori umani, dal distacco, dalla prevaricazione dell'intelletto sulle emozioni. L'attività neuronale dell'uomo metropolitano é molto veloce, accellerata in vista del bombardamento di stimoli quotidiani cui é sottoposto, per permettergli repentini e continui adattamenti interni. I suoi bisogni reali sono là sotto, nascosti chissà dove. L'uomo metropolitano, secondo Simmel, é mobile, fluido, plasmabile: si trova a oscillare eternamente tra il bisogno di socializzazione e di personalizzazione, pena la solitudine o l'omologazione. Siamo su una giostra impazzita da cui é impossibile - o difficile - scendere.


Non c'é da sorprendersi se proprio oggi soffriamo dei più svariati disturbi: nevrosi, ansia, depressione, insonnia, ossessività, compulsività. Il cinema, la televisione e più in generale la cultura popolare sembrano avere plasmato i nostri gusti e i nostri ritmi, ci hanno detto cosa mangiare, come passare il nostro tempo libero, cosa sia la bello e cosa no, e soprattutto ha ben delineato cosa ci rende diversi e disprezzabili. Abbiamo imparato a reprimere i nostri veri bisogni, il nostro vero sentire. Il sogno del self-made-man americano, ancora fortemente impresso nell'inconscio collettivo della società occidentale, é incarnato oggi nel quarantenne professionista newyorchese, distaccato e irraggiungibile, proprietario di una bella casa, con abiti costosi, un lavoro sicuro e redditizio, e che, libero da rapporti troppo vincolanti, può avere tutte le donne che vuole, quando vuole. Ma la verità é che nessuno vorrebbe essere come Brandon. Nessuno invidia un uomo solo, nel suo attico, che mangia cibo spazzatura e guarda film porno. Nessuno aspira ad andare a letto con centinaia di belle donne, se poi non é fisicamente in grado di farlo con la persona per cui prova qualcosa. Brandon corre di notte per le strade di Manhattan, una lunghissima carrellata lo segue senza tregua, la città é ad ogni angolo identica e indifferente. La sorella Sissy, patologicamente attratta da uomini sbagliati e con tendenze suicide, fa meno pena di lui: forse perché, a differenza sua, ammette di essere imperfetta. Brandon soffre di sex addiction, una vera e propria patologia paragonabile a qualsiasi tossicodipendenza, ma visto dall'esterno sembra l'uomo che tutti vorrebbero essere. Quanti ce ne sono come lui?


Ancora Simmel ci dice che oggi, grazie agli automatismi, non dobbiamo più preoccuparci di sopravvivere, ma piuttosto di realizzare le nostre possibilità inespresse. Troviamo l'essenziale nell'inessenziale: come i sogni, le opere d'arte, i film. Varchiamo la parete dello specchio che separa il reale dall'immaginario, giungendo in un mondo senza spessore che ci sembra più importante di quello in cui viviamo: questa illusione ci nutre, ci apre finestre su mondi inediti che appaiono ai nostri occhi un'esistenza più degna di essere vissuta. Le nostre vite sembrano così piccole, insignificanti. Shame ci fa pensare: é questo il sogno americano? Lasciare che il cinema ci schiacci o ci restituisca grande dignità, questo é il problema.

15 January, 2012

PINA 3D: il corpo come tramite

I corpi sono posseduti, estatici. Qualcosa li attraversa per arrivare a noi. Sembrano entità a sé, messaggeri di una visionaria Pina Bausch che entrano in scena, danzano portando il loro messaggio e ne escono svuotati, esaurendosi in quell'unico atto.


Gli artisti del Tanztheater rappresentano un fortunato ibrido di danzatori e attori, dove il corpo è veicolo di un messaggio totale e autonomo. Ci permettono di vivere un viaggio interiore attraverso le nevrosi e le psicosi umane, un work in progress che vediamo svilupparsi davanti ai nostri occhi. In uno stato di estasi (estasi appunto come annullamento del sé) si fanno tramite di un disegno superiore, il disegno della pittrice di corpi Pina Bausch. I suoi danzatori sono un prolungamento di se stessa, tanti piccoli frammenti autoreferenziali e al tempo stesso autonomi. “Pina was hidden in each one of our, and we were a part of her”.


Un mondo di suggestioni radicali ed essenziali, fatto di visioni post-contemporanee, che Wim Wenders rende, se possibile, ancor più magiche: rimane un senso di pienezza e di bellezza, di ebrezza da stimoli visivi e concettuali. I movimenti di macchina e la fotografia valorizzano la teatralità del gesto e del volto, permettendo che l'obiettivo sia i nostri occhi e che essi incrocino quelli dei danzatori, alcuni dei quali ci trapassano indelebili.


La danza è la prima forma di espressione artistica dell'essere umano, perché ha come strumento il corpo, è specchio della propria realtà e dei relativi comportamenti umani. Dal momento in cui qualcuno decise che mente e corpo fossero concetti distinti e separati si è assistito a una dissincronizzazione della nostra gestualità. Ce lo dice Pina attraverso il suo Cafe Muller, dove un uomo in giacca e cravatta costringe una coppia, in preda alla passione più spontanea, ad una catena di gesti meccanici e forzati, gettandoli nella frustrazione e nella disperazione. È lo strazio non di possedere, ma di essere sopra ogni cosa corpi, dell'avere una nostra propria naturalezza che il mondo tenta perennemente di mutare, plasmare, scardinare. Quella danza è lo strazio dei sentimenti che questi corpi vivono, fluiscono, incanalano. Il livello di possessione e di estasi di quei corpi è altissimo: evidente, osservandoli, il perché la chiesa cristiana volle condannare la danza. Il corpo riacquista dignità, si riappropria della sua originaria saggezza, ma con in più il dolore della consapevolezza: questo dolore è però inaspettatamente un dono di incredibile forza. Pina diceva ai suoi artisti: “your fragility is also your strenght” (la vostra fragilità è anche la vostra forza).


Wenders si mette al servizio di questo monologo onirico e visionario, in questo susseguirsi interminabile di mondi paralleli raccontati come flusso di coscienza - senza filtri - attraverso il linguaggio primordiale dei corpi. Ci sentiamo disorientati: il mondo di Pina ci assorbe così in profondità che ci perdiamo al suo interno. La Berlino che fa da sfondo è talmente integrata e assorbita dalla performance che ne è una naturale scenografia: persino il reale sembra piegarsi al suo cospetto. Viene da chiedersi, a questo punto, se l'effimero sia la traiettoria invisibile dei corpi o piuttosto il mondo come noi lo conosciamo. E se proprio il vostro livello di empatia e di “immersione” nel magico mondo non fosse ancora al suo apice, Wenders vi prende per mano, ve lo fa raggiungere attraverso le immagini in 3D.


La Bausch si raccontava attraverso un linguaggio fortemente allegorico, ad esempio la sedia ricorre come espediente nell'annullamento della gravità e nella costruzione di castelli effimeri e fragili che il corpo umano è costretto a sfidare: il suo lavoro è l'incontro fra il metodo catartico di Stanislawski e l'estrosità poliedrica, magmatica e sconfinata della danza contemporanea. Dance! Dance!” diceva Pina “otherwise we are lost” e aveva ragione. In un mondo di spersonalizzazione, omologazione, razionalizzazione, come quello in cui viviamo, in cui puniamo il nostro corpo seppur lui ci ripaga ogni giorno con la vita, il semplice gesto di danzare, come ricongiungimento tra il nostro corpo e le nostre emozioni, è l'atto di più forte affermazione individuale che possiamo compiere.